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15 apr 2024

La bellezza

di Luciano Caveri

L’altro giorno, mentre stava già calando la sera in Val d’Ayas, ho fermato la macchina e sono sceso, poco prima di Lignod, per godermi lo spettacolo del massiccio del Monte Rosa innevato con l’ultimo sole che lo illuminava.

Ho pensato - e mi è capitano spesso di farlo - a quanto sono stato fortunato ad essere nato in Valle d’Aosta e a quanto non ci si debba abituare alla bellezza dei luoghi dove si vive, evitando di assuefarsi e finendo per avere una sorta di pericolosa distrazione.

Questa sensazione estatica, per fortuna, mi capita sia qui che altrove, certo senza cadere nella Sindrome di Stendhal, che colse lo scrittore francese a Firenze (Uscendo da Santa Croce ebbi un tuffo al cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”). Scrisse sul tema una frase che può essere multiuso: “La beauté n’est que la promesse du bonheur”. Esiste, infatti, un legame fra bellezza e felicità, che impariamo nel corso della vita.

Sottolineo l’importanza di non perdere mai la capacità di godere appieno della Natura e delle creazioni artistiche prodotte dalla nostra umanità, come contraltare alle troppe brutture di cui siamo altrettanto capaci e le guerre che tornano vicine a noi ne sono lo specchio. Ha scritto Fëdor Dostoevskij: “L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più niente da fare al mondo! … La scienza stessa non resisterebbe un minuto senza la bellezza”.

Bellezza è già da sola una parola che contiene un mondo e lo racconta chi si occupa di scavare nei misteri dell’etimologia, che ci spiega di come le parole vivano, muoiano, si trasformino. La parola viene dal latino bellus, derivato di duenelos, diminutivo di duonus, da cui anche bonus, buono. Entrambi dalla radice indoeuropea dew-, derivata di dyew-, cielo, paradiso, e, per estensione, splendente. Da essa derivano, tra gli altri, i termini indoeuropei per dio, come il sanscrito daeva e il latino deus/divus. Interessante questo parallelo fra il sacro nei Cieli e il profano sulla Terra.

Sul sito unaparolaalgiorno, che scava con maestria dentro le parole si osserva: “L’aggettivo ‘bello’ è un iperonimo colossale, cioè una parola generale che ne contiene molte altre - così come esistono decine di tipi di ‘blu’. Come tutti gli iperonimi è economico e chiaro, ma carente di specificazione. Insomma, è una parola su cui non adagiarsi pigramente e da usare in maniera sorvegliata, perché è la precisione delle parole a schiudere la potenza del pensiero e la grazia dell’espressione: quando ci viene da usare ‘bello’, domandiamoci «In che senso ‘bello’?»; e quando abbiamo la risposta, usiamo quella”.

Tuttavia, proprio guardando quella montagna, il Monte Rosa, che è in realtà una sinfonia di montagne, con diverse cime ciascuna con una sua personalità, ho pensato a come spesso ci si dimentichi - e la frangia più estrema dell’ambientalismo lo fa spesso - di come quanto ci circonda non viva di una sua dimensione propria, ma sia dalla nostra osservazione, dai nostri sentimenti e dalle nostre sensibilità che esiste. Perché siamo noi che ne abbiamo la visione intelligente e ne cogliamo la bellezza.

Diceva l’alpinista Walter Bonatti: “Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi” Aggiungerei, giusto sotto le vette, i montanari che le abitano, che esprimono quella cultura che è nata e si è sviluppata in comunione con le particolarità dei territori.