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01 lug 2022

Il lavoro e gli affetti

di Luciano Caveri

Chissà se è "Dna" oppure un'influenza culturale dovuta all'educazione. Fatto sta che l'impronta che mi ritrovo è quella nel lavoro di non fermarmi mai e sarà così - immagino - sino a quando avrò delle cose da fare, che derivano in questo periodo in continuità con il passato dall'impegno politico. Un mestiere, quello del politico, cui si è prestati pro tempore (verrebbe da dire che tutto è così!), anche perché nello specifico - oltre alla scelta consapevole di fare altro - basta un'elezione sbagliata per trovarsi fuori. Io, a parte un periodo "fuori" dal 2013 al 2019 per mia scelta, in cui me ne occupai senza ruoli elettivi, corro da quel fatidico 2 luglio di 35 anni fa, quando entrai piuttosto giovane (ero il maschio più giovane ed una deputata, Anna Donati, mi superava per due mesi) alla Camera dei deputati.

Ci sono cose rispetto al 1987 che sono rimaste uguali ed altre sono molto cambiate, restando sempre questo vizio familiare - mio papà era così e lo era mio nonno - di buttarsi a capofitto in giornate piene di impegni con agende che ti fanno girare come una trottola. Me ne lamento, perché mi fa sentire vivo e utile. Quel che è cambiato o meglio peggiorato è l'impegno del tempo. Esistevano una volta pause possibili durante il giorno. Ad esempio negli spostamenti o nelle attese prima che cominciasse qualcosa o pure in vacanza in luoghi remoti senza contatti trovavi minuti preziosi da adoperare altrimenti rispetto all'assillo delle cose da fare e dei dossier da seguire. Oggi non si stacca mai, le persone e i problemi ti inseguono e il "diritto alla disconnessione" non rientra nel lavoro politico, che è senza orari e - lo scrivo ironicamente - senza regole contrattuali. Non faccio la vittima, perché farei ridere i polli, ma mi scoccia ancora oggi quel sorrisetto di chi, quando ti capita di dire che sei politico, ti giudica uno che non lavora e che scalda la sedia, anzi «la poltrona» o, come si indica con dileggio per un simbolo del potere, «il Palazzo». Ogni tanto ci vorrebbe rispetto, il che non è una difesa d'ufficio per chi - e ce ne sono anche in politica - la sedia la scalda davvero e vive l'esperienza politica con stolida leggerezza senza afferrarne i doveri, compresi quelli morali. L'etica del lavoro sembra di questi tempi essere un impiccio e mi capita di parlarne con persone che operano in molti settori produttivi, accorgendomi di come per molti dipendenti si guardi al dopolavoro, alle vacanze, al tempo libero come stella polare della vita, non avendo più in troppi casi quel gusto di cercare di fare bene il proprio lavoro, qualunque esso sia. Anche chi comincia un lavoro sembra porre quesiti che fissano un perimetro nella propria attività che mira a considerare il lavoro come un male necessario e non quella sorgente di impegno e di soddisfazione che consente di crescere e di migliorare, se ci si crede. Penso che ognuno di noi abbia in mente persone conosciute, quelli che in inglese si definiscono self-made man, cioè coloro il cui successo sociale e professionale è stato frutto esclusivamente della propria forza di volontà e del proprio spirito di sacrificio. Ha scritto Vittorio Messori: «Chiesero un giorno a Sigmund Freud di sintetizzare la sua "ricetta" per difendere l'uomo dai mali oscuri che affiorano dal profondo. "Lieben und arbeiten, amare e lavorare" fu la risposta del fondatore della psicoanalisi. E', guarda caso, la stessa formula proposta all'uomo dal Nuovo Testamento, che pone al centro del suo messaggio amore e lavoro». Dentro questo "amore", affinché il lavoro non diventi un aguzzino, ci sta la vita con i suoi affetti, il divertimento, la scoperta, il viaggiare, lo sport e tutto quello che arricchisce la nostra esistenza, a condizione però - sarò pure vetusto a pensarlo - di considerare il lavoro come un elemento fondativo. Ed è per questo che le Costituzioni moderne affermano il diritto al lavoro!