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19 mar 2022

Lo spazio pubblico da riempire

di Luciano Caveri

La vita continua anche in tempi grami. Era così durante la fase più drammatica della pandemia con le paure derivanti e le conseguenze gravi, che non bisogna dare per concluse. Lo è per le minacce della guerra in Europa che creano apprensioni ancora più grandi ed ovvia partecipazione al dolore degli ucraini. Si aggiungono problemi incombenti come la crisi energetica conseguente, il cambiamento climatico che prosegue ed il crollo demografico in corso. Chiudo l'elenco. Per fortuna ogni questione che assilli e preoccupi non ci impedisce di vivere. Altrimenti che esistenza sarebbe se non riuscissimo a continuare a fare delle cose normali, quotidiane. Saremmo sempre allarmati, depressi, frustrati, prigionieri di preoccupazioni e fobie. Intendiamoci, però, non che si debba far finta di niente.

Bisogna informarsi, agire laddove si può, avere consapevolezza che certi problemi - compresi quelli soverchianti - oltrepassano i nostri confini privati. Lo spazio pubblico va riempito e a questo servirebbe la politica, che oggi sembra essere accessoria e distante. Mi riferisco alle persone normali non ai "militanti protestatari" che passano la vita a fare quello come se fosse un mestiere, chiusi in una dimensione ideologica che di fatto li imprigiona nelle loro convinzioni scaturite dall'ideologismo già evocato. Ci pensavo l'altra sera a questo distacco di chi una volta c'era, in occasione di uno spettacolo al "Palais Saint-Vincent", guardando la sala dove mi trovavo. E pensavo a quando una trentina di anni fa alle manifestazioni politiche si riempivano le sale con centinaia di persone senza nessuno sforzo. Ricordo dopo vittorie elettorali i festeggiamenti debordanti, con folle pigiate, nel "PalaCeva" a Saint-Christophe, poi smantellato. Oggi non sarebbe più pensabile e le ragioni sono molte, fra le quali una propensione della politica a non riuscire ad aprire confronti reali sui grandi temi. Basta seguire certi dibattiti parlamentari, che siano a Bruxelles, a Roma e pure ad Aosta, per capire quanto troppe volte si guardi al dito e non alla luna. Si sprecano carta, tempo ed energie su argomenti piccoli e insignificanti, corporativi o addirittura personali, mentre grandi questioni dovrebbero essere districate e far parte di un dibatto per evitare di dire che a decidere sono sempre gli stessi soliti noti. Non è che mi chiami fuori da responsabilità su questa politica che rischia di diventare una conchiglia vuota. Ci sono dentro da tanti anni ed avrò certo giustificazioni ed esimenti, ma quel che avviene è responsabilità dì politici vecchi e nuovi (nuovismo spesso deludente) ed anche dei cittadini che hanno la loro parte, quando decidono di staccare la spina dai partiti e movimenti. Resterebbero i sindacati, ma meglio che non mi esprima: la politica ha cercato di riformarsi con nuove forme di aggregazione, il sindacato è rimasto troppo spesso un erogatore di servizi e certo difensore dei diritti, non sempre però dei migliori. Insomma: questa la diagnosi, di cui non vedo la cura, se non che - almeno nella piccola Valle d'Aosta - i tempi difficili nel presente e temo nel futuro riaprano spazi per il mondo autonomista, che dal dopoguerra ha saputo scaldare i cuori, oggi tiepiducci.