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10 gen 2022

Dietro la tazzina di caffè

di Luciano Caveri

Ho cominciato a bere il caffè molto tardi nella vita. L'ho fatto per compartecipare ad un rito sociale, poi mi ci sono affezionato e non è solo la caffeina che crea dipendenza, perché oggi bevo spesso decaffeinati che siano in formula più o meno "espresso" o "filtrato all'americana". Esiste una logica di «bersi un caffè» come colleganza o partecipazione amicale. Per curiosità ho poi bevuto caffè in tutti i Paesi dove sono stato, compresi i Paesi arabi o i beveroni statunitensi. Impagabile il caffè già zuccherato di Sant'Eustachio a Roma e molto politico quello bevuto alla buvette di Montecitorio Ho letto con interesse una lunga inchiesta sul caffè, firmata con maestria da Massimiliano Tonelli, già direttore editoriale di "Gambero Rosso". Senza pietà smonta alcune convinzioni in modo argomentato.

Tipo quando scrive impietosamente: «Non siamo nazionalisti in nulla, sconosciamo le vere peculiarità, unicità, storia, eccellenze del nostro Paese ma su determinate merceologie alimentari (pizza, pasta e appunto il povero caffè) diventiamo alfieri della purezza della nazione. E manco a dire che la buttiamo sulla cultura considerato che al caffè (ed ai caffè, intesi come locali) il mondo intellettuale italiano deve moltissimo. Macché: in Italia siamo proprio convinti che la tazzina di caffè nostrana sia davvero il meglio quanto a sapore e profumo. Peccato che per i motivi che andremo a sviscerare, beviamo tra i caffè più mediocri d'occidente». Più avanti affonda la lama: «Anzi, proprio a cagione di questa spocchia in Italia si beve attualmente il peggior caffè del mondo. Il motivo è che questo atteggiamento dei consumatori (orgoglioso ma al contempo impreparato, ignorante, miope) viene volentieri cavalcato dalla filiera per massimizzare i margini di guadagno a detrimento della qualità. Consumatori che comprano prodotti scadenti e sono pure contenti, nessuna industria chiederebbe di meglio...». Tonelli passa poi agli errori: «Con automatismo quotidiano zuccheriamo il caffè pensando la cosa sia normale, ma una bevanda che per essere bevibile ha bisogno di edulcoranti è una bevanda che ha dei problemi e che ci crea dei problemi costringendoci ad assimilare etti di dannoso saccarosio ogni mese. Siamo convinti che il colore del chicco di caffè sia nero, come quello che vediamo nelle campane trasparenti al bar, mentre la tostatura ottimale è marroncino tenue: è nero perché abbrustolendolo si eliminano tutti i difetti (ed i pregi) appiattendo il sapore a quel caratteristico aroma di carbone. Tostando il caffè in quel modo i torrefattori sono così nelle condizioni di comprare partite di prodotto scadente, fallato, acerbo. Spuntando prezzi bassissimi e massimizzando i margini. Siamo convinti che il caffè debba costare 0,80 centesimi, al massimo un euro. Se il prezzo sale gridiamo al furto e cambiamo bar. Non ci rendiamo conto che ogni caffè sottoprezzo (sotto i due euro è sempre sottoprezzo, non a caso in tutto il resto del mondo il corrispettivo quello è) genera sfruttamento, lavoro nero, sofferenza in tutta la filiera, dalla piantagione fino al bar. Al nostro bancone di fiducia una tazzina può venire via a pochi centesimi solo se dietro c'è un barista sottopagato, mai formato, assunto al nero, sfruttato. E così consideriamo inaccettabile spendere il giusto per un caffè, ma poi giriamo l'angolo e andiamo a manifestare a favore della sostenibilità e dei diritti...». Che il caffè fosse sottopagato era chiaro proprio guardando al mondo, ma messa così viene davvero da deprimersi! Poi arriva il meglio e bisogna farci mente locale: «E poi c'è il gusto. In Italia abbiamo la certezza che la tazzina di caffè abbia quel sapore lì. Proprio quello lì: di carbone. Non è così: il sapore del caffè è altra cosa. Alle volte si avvicina ad una densa spremuta di frutti rossi, a volte al sentore pungente degli agrumi, talvolta addirittura ai profumi fermentati del vino o certe tipologie intense di the. Quella bevanda che abbiamo banalizzato e trasformato in una sorta di medicina da trangugiare velocemente in piedi, non è più caffè: è una estrazione di chicchi bruciati, carbonizzati da un trattamento dozzinale. Ovvio che poi "il caffè fa male"». La chiusura é uno squarcio di luce nel buio: «Ovviamente non tutte le tazzine sono così. Ci sono dei bar che cercano di lavorare con un pizzico di attenzione in più, ci sono tostatori più attenti che selezionano la materia prima, ci sono perfino grandi torrefazioni industriali che hanno annusato l'aria e stanno debuttando nell'universo del caffè sostenibile e di ricerca». Seguono varie testimonianze che suonano la carica, ma prepariamoci a pagare il caffè per quello che vale, quando vale.