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14 dic 2021

Il campanilismo buono

di Luciano Caveri

Il campanilismo (in francese "esprit de clocher") ha in prevalenza un'accezione negativa, quando segnala una chiusura ed una grettezza che rinchiude le persone nei confini del proprio paese. Anche nella piccola Valle d'Aosta questo può avvenire ed esistono rivalità antiche fra Comuni vicini e si manifesta il rischio di non avere una visione complessiva dei problemi, manifestando piccoli egoismi municipali. Ma esiste anche un campanilismo sano, fatto di senso identitario non conflittuale e di amore per le proprie radici. Ci pensavo alla lettura di un intervento su Saint-Vincent, nel quadro di un progetto comunitario che già si per sé stesso è un quadro che sprovincializza le intenzioni, fatto da uno studio serio e puntuale dì Piergiorgio Crétier, che dimostra il côté buono del campanilismo.

Propongo così, come esempi, due passaggi della sua prosa descrittiva e colorata. «Un territorio; una società agricola vivace e innovativa; un'economia che nei secoli ha saputo guardare al futuro; villaggi che odorano di secoli di conoscenze architettoniche; di comunità laboriose; di buon gusto e di tanta caparbietà per ottenere non già un'economia di sussistenza ma di reddito; una fede incrollabile che ha favorito nei secoli la nascita e il mantenimento di piccole Cappelle di villaggio; una fitta rete di mulattiere che fin dalle rive della Dora si inerpicano, collegandosi tra loro fino al Colle di Joux, naturalmente incontrandosi nei confini territoriali di questo paese con le più grandi vie di comunicazione. E poi, un fantastico quanto impensabile Fil Rouge che lega tutto in modo stretto, indissolubile quanto indispensabile: l'Acqua! Un Fil Rouge blu, il colore dell'acqua che è vita, forza, ricchezza e ...e chissà quanti altri aggettivi potremmo aggiungere.   Questo condensato è in estrema sintesi la plurisecolare storia della Montagne de Saint-Vincent, erroneamente indicata oggi come Collina; questa precisazione è necessaria in quanto per Territorio della Montagna si intende solitamente riferirsi a quel comprensorio posto a monte del Canale della Pianura o della Piana (a circa 550 metri sul livello del mare) denominato "Grand Ruisseau de Saint-Vincent" e che raggiunge in modo sia morbido che aspro la "sella" del Colle di Joux. Nel suo interno nel corso dei secoli sono stati edificati decine di villaggi. Il nome "villaggio" deriva dal latino "villæ", "villaticum" ed indica una o più costruzioni parzialmente isolate e indipendenti; più semplicemente, con la parola "villaggio", si intende riferirsi oggi a quel complesso edilizio di dimensioni ridotte, più o meno organico, dotato di servizi propri, ma solitamente situato distante da un ampio centro abitato dotato di edifici per l'amministrazione civile, per il commercio e per il culto. I nostri villaggi sono esattamente questo; costruiti sul territorio in posizione strategica, in prossimità di sorgenti d'acqua per le necessità delle persone, degli armenti e delle colture; rivelano la straordinaria conoscenza del territorio da parte dei nostri progenitori che lì si sono insediati con la consapevolezza delle difficoltà del territorio ma con la determinata volontà di possedere un ricovero, “un tetto”, nei pressi delle colture da essi per lungo tempo intensamente praticate. Nel corso dei secoli i nostri villaggi, aventi tutti una vocazione dichiaratamente rurale, sono stati sempre intensamente abitati; va però detto che i pochi censimenti della popolazione fatti prima dell'Ottocento certificano solo il numero dei "fuochi" cioè i nuclei famigliari, mentre solitamente non indicano mai il numero complessivo degli abitanti; piccoli riferimenti possono però essere ricavati da altre documentazioni in particolare negli Atti di Testamento. Da tutte le carte si accerta comunque che i villaggi erano nel loro insieme sociale, famigliare, architettonico e devozionale, dei veri e propri "unicum". Pur con le logiche difficoltà, rappresentate dal territorio tipicamente alpino, esisteva una fitta rete stradale che collegava tutti i centri - sia montani che pedemontani - al borgo e che consentiva la mobilità della popolazione, degli armenti e delle merci; a questo proposito è importante citare anche la strada che dalla valle centrale si snodava su tutto il territorio comunale per raggiungere prima il colle di Joux e la Valle d'Ayas e successivamente i trafficatissimi colli della Svizzera (per tutti si cita il colle del Teodulo)». Chi non conosca il luoghi di questa civilisation alpine, vivace e produttiva, può farsi accompagnare in questo ulteriore passaggio: «Nei villaggi, a seconda della loro localizzazione, erano state costruite tutte quelle strutture comunitarie che garantivano ai residenti di poter operare al meglio senza doversi allontanare dalla propria abitazione: forni per la panificazione, mulini per i cereali, latterie consortili, fontanili utilizzati come lavatoi e come abbeveratoi oltre che come piccola riserva d'acqua, per concludere con i maestosi torchi per la pressatura delle vinacce. Verso la fine del Settecento nascono, in particolare grazie alle spinte decise della Chiesa locale, le scuole di villaggio; queste, sostenute economicamente dalla popolazione, saranno inizialmente frequentate dai ragazzi solo per un breve periodo (circa tre mesi durante l'inverno) perché il resto dell'anno dovrà essere dedicato dagli alunni al lavoro nei campi; le scuole dei villaggi permetteranno alla nostra popolazione di fare un notevole salto di qualità sotto il profilo sociale e culturale. Ma tra i beni posseduti in comproprietà dalle persone non bisogna dimenticare i grandi boschi comunitari vero polmone per l'economia delle famiglie. Quasi prioritario su tutto era però l'edificio sacro, quello in cui riunirsi per pregare e per affidare al Divino fede, ansie, gioie e dolori; secolari mura frequentemente decorate in facciata da preziosi affreschi e ingiallite carte - conservate indifferentemente negli archivi parrocchiali o dalle famiglie - ci raccontano con dovizia di particolari le vicissitudini occorse alle Cappelle le quali serviranno per il soddisfacimento dei bisogni spirituali di una popolazione profondamente religiosa e devota. Per inciso potremmo dire che la quotidianità della gente era scandita da un lunghissimo elenco di doveri, di momenti e di credenze religiose, davvero impressionante. Ecco, il villaggio era una minuscola città in cui era presente tutto quanto necessitava; ma le cose che maggiormente presenziavano su tutto, erano la solidarietà e il mutuo soccorso. Da secoli questo grande comprensorio così ben esposto al sole, con ampi tratti pianeggianti e colturabili ha avuto un solo grandissimo problema: l'assenza quasi totale di acqua sia per gli uomini che per le colture e gli armenti. Non avendo a monte del proprio territorio delle riserve glaciologiche (e neppure acque sorgive di una certa importanza) questa popolazione si è dovuta immaginare e inventare il proprio futuro. Dopo decenni di devastanti siccità nell'estate del 1393 ecco la "posa della prima pietra" per la concretizzazione di un'idea ciclopica che portava in sé anche una giusta dose di pura follia: andare a prelevare l'acqua alla base del Ghiacciaio del Monte Rosa e portarla fino alla "sella" del Colle di Joux per poi essere distribuita con canali più piccoli sull'intero territorio. Nella tarda metà del Trecento, immaginando di costruire il proprio futuro, i capifamiglia della Montagne, profondi conoscitori del territorio stabilirono un folle ma realizzabile progetto che prevedeva il prelievo dell'acqua direttamente dal ghiacciaio del Monte Rosa nell'alta valle di Ayas; naturalmente per la concretizzazione e realizzazione di questa faraonica opera dovettero chiedere l'autorizzazione al proprietario dell'acqua entro le cui terre si trovavano sia il feudo di Saint-Vincent che quello di Graines a Brusson: il nobile in questione era il Cavaliere Ibleto, esponente di primo piano della nobile famiglia dei Challant, fedelissimo dei Duchi di Savoia e signore di Montjovet, Saint-Vincent, Graines, Châtillon, Verrès, Issogne e di altri importanti feudi situati sia in Valle d'Aosta che altrove. Dopo tanti preliminari il 14 luglio 1393 nella casa del notaio Pierre Astesan posta nel borgo di Saint-Vincent, si presentano, chapeau à la main et main dans la poche, una quindicina di capifamiglia residenti nei villaggi della Montagne per sottoscrivere l'atto con cui il nobile e potentissimo Ibleto concedesse loro sia l'acqua necessaria sia il permesso di scavare e fare scavare un canale che prendendo le acque in località Cortot alla base del ghiacciaio del Monte Rosa le porterà fino all'assolata campagna del nostro territorio; questo signore domanderà però un compenso che quantificherà in 14 fiorini d'oro e il diritto ad un'intera giornata d'acqua proveniente dal canale per irrigare le sue terre di Challant e Verrès. Accettate le condizioni e pagato il dovuto si diede immediatamente avvio ai lavori per quella gigantesca opera tutt'oggi funzionante e meglio conosciuta con il nome di "Ru Courtaud" che si protrassero per circa quarant'anni e comportarono uno scavo lungo oltre 22 chilometri in parte in terra ed in parte in roccia ad una quota compresa tra 1.500 e duemila metri, ma questo solo per arrivare alla sella del Colle di Joux; per completare l'opera era necessario scavare anche i rivi principali e tutte le derivazioni per portare l'acqua ai campi. Incredibile lavoro se si considera che siamo in pieno Medio Evo e che certo le professionalità capaci di progettare (calcolando naturalmente anche le pendenze necessarie allo scorrimento dell'acqua) una simile opera erano poche e certamente molto onerose. Nel frattempo un'intera generazione era passata! Nel 1433 l'acqua finalmente arrivò e con lei anche e immediatamente la rinascita dell'assetato territorio». Un esempio concreto di un progetto ambizioso, che - nella evocata logica del campanilismo buono - traguardò le generazioni in un passaggio di testimone, che ancora oggi consente alla Montagne di essere rigogliosa.