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08 nov 2021

Ricolfi nel mirino

di Luciano Caveri

Luca Ricolfi, nuova firma di "Repubblica", ha esordito sul giornale romano con un articolo che è servito da assist a chi ritiene che il quotidiano si stia spostando a destra. Premetto che questo discorso destra, sinistra, centro più passano gli anni e più è una rappresentazione della realtà piuttosto rozza e spesso il posizionamento politico più che oggettivo - si fa per dire con precedenti avvertenze - diventa talvolta un'autorappresentazione. Perché l'articolo ha creato qualche mal di pancia? Proviamo a leggerne qualche passaggio che verte su di un tema che mi ha sempre molto interessato. All'inizio la storia: «Quando, esattamente, sia nato il "politicamente corretto" nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo concentrata - come la nostra - sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le fine degli anni '70 e i primi anni '80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l'uso appropriato del linguaggio. Lo specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio».

«Questa posizione, profondamente idealistica e anti-marxista - prosegue l'articolo - condusse, nel giro di un decennio, a conferire una centralità assoluta ai problemi del linguaggio, e a creare un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola "negro" (sostituita con "nero"), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare. In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni '80, l'ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l'élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse». Fin qui mi sembra che si dica "pane e pane e vino al vino" quanto mi sembra logica e buonsenso. Ma Ricolfi ne segnala recenti storture: «La prima mutazione (da cui la variante alpha) è intervenuta all'inizio del XXI secolo, con Internet e la creazione del nuovo spazio pubblico dei social. Fino a ieri, per risentirti se uno ti chiama spazzino dovevi incontrare una persona in carne e ossa, e accorgerti della sua eventuale intenzione di offenderti. Oggi, se navighi su Internet o stai sui social, hai mille occasioni quotidiane per offendere e sentirti offeso. L'arena dei social, dove imperversano volgarità e offese alla grammatica, è un perfetto brodo di coltura delle suscettibilità individuali». Così procede: «La seconda mutazione (da cui la variante beta) è l'espansione della dottrina del "misgendering" in tutti gli ambiti. Che cos'è il misgendering? E' chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università americane, i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere indicato: he, she, zee, they, eccetera. Gli epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere finale l'asterisco (cari collegh), la vocale "u" (gentilu ascoltatoru), o la cosiddetta schwa (ə) (benvenutə in Italia) per essere più "inclusivi", ovvero non escludere o offendere nessuno. La nascita di codici di scrittura "corretti" procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti - se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione - saremmo tenuti a adeguarci. Fra i più deliranti di tali codici quelli emersi recentemente nell'industria delle comunicazioni audio e in ambito informatico. D'ora in poi un operaio, se non vuole essere accusato di sessimo, non potrà più parlare di jack maschio e jack femmina, e dovrà sostituire questi termini con spina e presa. Quanto agli informatici, guai parlare di architettura master-slave, che evocherebbe il dramma della schiavitù». E ancora: «La terza mutazione (da cui la variante gamma) è la cosiddetta cancel culture, secondo cui tutta l'arte e la letteratura, compresa quella del passato, andrebbe giudicata con i nostri attuali parametri etici, e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno. Le case editrici si dottano di sensitivity readers, che passano al setaccio i manoscritti non per valutare il loro valore artistico, ma per vedere se contengono anche la minima traccia di idee che potrebbero urtare qualcuno. Le statue dei grandi personaggi del passato vengono distrutte o imbrattate. I dipinti di Paul Gaugin vengono censurati perché il pittore aveva sposato una minorenne. Il finale della Carmen di Bizet viene capovolto, perché nel finale la protagonista viene uccisa da don Josè, e noi non ce la sentiamo di mettere in scena un femminicidio (ma un omicidio messo in atto da una donna sì)». Penultimo punto: «La quarta mutazione (da cui la variante delta) è la discriminazione nei confronti dei non allineati. Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell'esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell'élite dominante. Non solo: nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all'ortodossia politica dominante». Infine: «La quinta mutazione (da cui la variante epsilon) è forse la più preoccupante. E' la cosiddetta identity politics. Un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo). Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell'Islam essere islamico; per parlare dell'Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di "appropriazione culturale". Ma da qui deriva, soprattutto, l'idea che nell'accesso a determinate posizioni non contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l'esperienza, ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati. Se sono maschi bianchi eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l'ideologia dominante. Perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i discendenti dell'uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati. All'ideale dell'eguaglianza, generosamente perseguito da Martin Luther King, che pensava che tutte le differenze di razza, etnia, genere dovessero diventare irrilevanti, perché a contare dovevano essere solo le altre differenze (quelle che fanno di ogni individuo quel che è, con i suoi pregi e i suoi difetti), subentra l'idea opposta che solo le differenze di razza, etnia, genere contino. Lo scopo delle grandi istituzioni educative, a partire dalle università, non è più promuovere la conoscenza e ricercare la verità, ma combattere le ingiustizie sociali, riequilibrando le diseguaglianze con azioni positive, che privilegiano determinate minoranze e penalizzano maggioranza e minoranze non protette, prescindendo dai meriti e dalle capacità di ogni individuo. Così la parabola della cultura liberal si compie. L'ideale di Martin Luther King e di tanti leader illuminati del passato (compreso Barack Obama), sconfiggere le discriminazioni con l'eguaglianza, si capovolge nel suo contrario: instaurare l'eguaglianza attraverso le discriminazioni». Davvero sono idee balzane e soprattutto politicamente... scorrette?