Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
04 nov 2021

Il Gioco del Calamaro

di Luciano Caveri

Ci pensavo ieri che era "Halloween", uno dei casi - analogo al Carnevale , che è meno dark - in cui ci si traveste, celando spesso il viso con delle maschere orrende che servono per esorcizzare le nostre paure, in primis quella dì morire. Quelle maschere inquietanti che in certi casi hanno richiamato il successo televisivo dell'anno: il sudcoreano "Squid Game" ("Gioco del Calamaro"), che pare infatti abbia spopolato anche come costume horror per bambini proprio ad Halloween. Anche io l'ho visto su "Netflix" e dopo averlo guardato distrattamente una prima volta, liquidandolo come un fenomeno trash, sono poi caduto vittima del meccanismo attrattivo con cui è stata costruita la storia. In più queste serie televisive sono agevolate dal meccanismo ipnotico della possibilità di vedere in sequenze le puntate successive già stipate nel server e fruibili in un batter d'occhio on demand. Per cui, presa la mano nella fine sospesa della puntata che ti spinge verso l'episodio successivo, resti vittima di questo gioco crudele e mortale inventato dagli sceneggiatori sudcoreani (quelli nordcoreani hanno, poveretti, un orrore quotidiano nella vita reale). In sintesi: c'è nel racconto in palio un enorme montepremi per un solo vincitore finale ed i quattrocento partecipanti (426) si sfidano e si eliminano in crudeli giochi mortali.

Giancarlo de Cataldo su "Repubblica" ha scritto: «Ma perché siamo tutti pazzi per "Squid Game"? Bastano una messa in scena ben realizzata, situazioni ad alto impatto emotivo, una spolverata di esotismo, dinamiche relazionali perfettamente concepite, un meccanismo di suspense ad orologeria a giustificare la calamaro-mania che sta invadendo l'Occidente? L'impianto, a ben vedere - un gioco tragico con la vita come posta in palio - non brilla per originalità. Si tratta anzi di un tema più volte affrontato dalla fantascienza classica (e non solo)». Così più avanti: «Che si tratti del trauma della guerra, dalla natura aliena di qualche giocatore, dalla noia dei ricchi poco conta: lo statuto prevede la lotta fra un giocatore molto potente e uno molto debole. La sproporzione deve essere estrema, così come la crudeltà del più forte: condizione necessaria per la riedizione del mito di Davide e Golia che ci induce a schierarci con il giovanetto armato di fionda contro il mostruoso gigante. Lo facciamo senza ombre, dimenticando, per esempio, che sovente il giocatore debole è sceso in campo perché spinto dall'avidità, difettuccio che viene sollecitamente perdonato a fronte della protervia del nemico. Fin qui, "Squid Game" gioca ancora nel campo della tradizione: tutti questi elementi ricorrono nella serie coreana, i giocatori hanno qualcosa da farsi perdonare e i cattivi sembrano imbattibili. E qui subentra il vero fattore di originalità: una formidabile sintonia del racconto con lo spirito dei tempi. L'autentico snodo sta nel fatto che il gioco è frutto di una scelta collettiva dei giocatori. Mentre nello schema classico il giocatore debole o è ignaro della posta in gioco o è forzato a giocare, nel "Gioco del Calamaro" le regole sono chiare e condivise. Si firma un contratto in base al quale le vittime accettano di essere tali in vista del miraggio dell'arricchimento. Lo fanno perché convinte di non avere alternative. Anche questo tema - la scelta estrema dell'individuo con le spalle al muro - non è originale. Ma non era mai stato declinato in questo modo». Ultima osservazione interessante: «I controllori di "Squid Game" indossano tute che ricordano vagamente un'altra serie di grande successo - "La casa di carta" - anch'essa figlia dei tempi; ma nel racconto di Tokyo e compagnia vibra una vena anarcoide, da giovane Brecht (meglio rapinare una banca che fondarne una) che nella serie coreana è assente». Questo parallelo, che ricorda il successo della serie dì produzione spagnola di cui avremo l'epilogo, dimostra che le serie televisive non sono solo più americane. E si evidenzia un altro elemento che da letterario diventa televisivo. Parlo del fascino del "cattivo", che è stato ben presente anche nel successo mondiale della serie televisiva italiana "Gomorra". Davanti allo schermo finivi per simpatizzare coi camorristi e lo stesso valeva per la serie su Tangentopoli "1992", che ed me - all'epoca alla Camera - era un parziale ritorno con la memoria a quei tempi. Per altro, a ben pensarci, già con "I Soprano" finivi per osservare con comprensione le malefatte di una famiglia mafiosa italoamericana.