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14 gen 2021

Tristezze attorno alla pandemia

di Luciano Caveri

Governare stanca. Lo sapevo benissimo quando ho accettato di tornare in pista in politica. E l'ho fatto conscio o forse anche spinto dal momento delicato: la crisi pandemica. Una situazione difficile in cui sentivo il dovere di esserci, nella speranza di poter essere utile con le mie esperienze precedenti. Quando si fa il politico regionale, avendo però avuto la fortuna di essere stato a Roma ed a Bruxelles con ruoli che mi hanno consentito di imparare molte cose, è ovvio capire come ogni decisione assunta deve fare i conti con la rete complessa in cui siamo inseriti. Ogni decisione, anche la più banale, non è un unicum a sé, ma è inserita in un sistema decisionale nazionale, europeo ed in certi casi persino mondiale.

Nei riflessi della pandemia questa complessità si accentua. Un esempio banale: il vaccino che spero mi venga inoculato fa parte di una dimensione globale di ricerca, gli acquisti passano attraverso le autorità europee, i piani vaccinali vedono responsabilità condivise fra Roma (nelle mani di Domenico Arcuri, la querela più veloce del West) e le autorità locali. Tutto funziona se i diversi livelli decisionali e di governo interagiscono e se, ad esempio per le misure di contenimento, si seguono le procedure democratiche obbligatorie nel nostro ordinamento, che certo devono tener conto dell'accelerazione dei tempi necessari per rispondere ad un'emergenza sanitaria di elevatissima gravità. Ebbene, la constatazione della realtà fa capire come le cose, in Italia, funzionino diversamente e questo pesi infine sulla schiena dei decisori politici di prossimità, come sono io in questo momento. Roma decide la gran parte delle cose tardivamente ed in modo confuso e senza alcuna reale condivisione. Agisce d'imperio, dettando regole buone per tutti i territori e le popolazioni: una cieca e proterva visione centralista con strumenti rozzi e spesso incomprensibili con un rumore di fondo fatto di notizie che escono poi stravolte all'ultimo minuto. La conseguenza è il caos ed i terminali della rabbia popolare sono quelli che si impegnano nella democrazia locale. A dimostrare che a Roma ha perso il controllo lo dimostrano - fra le altre - la questione dei colori, quella delle chiusure e la storia fondamentale dei famosi "ristori" di cui alla fine si sa poco e non si hanno certezze. Questa situazione non solo è disdicevole, ma getta ombre sulle Istituzioni e sfiducia crescente verso la politica, accomunata con le Amministrazioni, in un unico calderone. E la ribellione crescente ormai è condivisibile, perché non sembra esserci nei diktat romani un disegno pensante, che non sia improvvisazione e "giorno per giorno". Non lo dico per catastrofismo e per scaricabarile, ma perché - conoscitore dei meccanismi della leale cooperazione - noto con orrore metodi impositivi che non sono giustificati di certo in questa fase dell'epidemia. Anzi, al momento la macchina dovrebbe essere rodata: si paga pesantemente la presenza in alcuni gangli vitali dello Stato di personale politico mediocre, buono per protestare e non per governare. E' bene dirlo perché è ora di dare una bella resettata e questo vale anche per noi in Valle d'Aosta, per fare una seria autocritica su quanto non funziona. "Autonomia" significa essere sempre all'altezza e di sicuro lo stato di salute del nostro apparato burocratico-amministrativo va migliorato e, per la politica, la fine dell'epidemia significherà difficoltà enormi per una ripartenza della crisi attuale che sarà tutta in salita.