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01 dic 2020

Perché la Svizzera non è l'Italia

di Luciano Caveri

Non so da quanto tempo non andavo in Svizzera ed è ciò che è avvenuto ieri per incontri con autorità politiche del Canton du Valais nel quadro delle mie deleghe sui fondi comunitari, visto che da anni abbiamo, con progetti "Interreg", una proficua collaborazione, che aveva delle urgenze di cui occuparci congiuntamente. So che avrei potuto fare l'ennesima videoconferenza, ma - nel rispetto di tutte le regole di distanziamento - ci sono argomenti che devono essere affrontati di persona. Il rapporto umano mai potrà essere surrogato dal dialogo a distanza. Farà sorridere il mio candore se dico con sincerità che il solo attraversamento del tunnel del Gran San Bernardo mi ha dato un senso di libertà. Già il rinnovo delle luci lungo la carreggiata, con luci blu a segnare la distanza fra i veicoli, mi è sembrato chissà cosa e, spuntato dall'altra parte, mi sono ritrovato a pensare quante fossero state le occasioni per svago o per lavoro in cui ero stato in questo cantone svizzero che ha così grandi similitudini territoriali, umane e culturali con la nostra Valle.

Poi, ovviamente, negli incontri - e fra gli interlocutori c'è stato anche il Presidente del Valais Christophe Darbelley - ci si è ritrovati a discutere della pandemia, che sta cambiando molte cose e ci obbliga a far fronte ad emergenze del tutto simili. E viene naturale constatare di come, fra zone confinanti con medesime caratteristiche, risulti grottesco che ci si trovi ad assumere scelte così diverse. Il caso più eclatante di queste ore è la scelta da parte svizzera di tenere aperti gli impianti di risalita. Scelta difesa a spada tratta dai Cantoni e condivisa dalla Confederazione a difesa di un'economia alpina che corrisponde esattamente al caso valdostano. Le differenze istituzionali sono evidenti. Nel sistema elvetico, basato sul federalismo, Berna, e cioè il potere centrale, non può comprimere oltremodo il sistema di democrazia diffusa. Da noi, invece, il crescente centralismo peggiorato dalla pandemia porta Roma ormai, nel segno dell'emergenza, ad imporre decisioni anche quando non condivise dalle autorità locali e questo fa capire il perché l'Autonomia speciale, a differenza del federalismo, abbia evidenti debolezze. Resto convinto, anche grazie alle informazioni acquisite ieri, che si possano prendere impianti di risalita e si possa sciare in sicurezza, facendo tesoro degli errori del marzo di quest'anno e anche della prima apertura al Breuil-Cervinia. Gli stessi vallesani erano arrabbiati di certi problemi avuti a Zermatt qualche giorno fa, ma mi hanno illustrato tutte le misure assunte per consentire una stagione invernale senza la quale anche la loro economia andrebbe in crisi, così come sarà per noi. Questo per confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, di come ci possano essere soluzioni e quel che colpisce è come Roma non abbia neppure tentato un dialogo, malgrado le Regioni alpine fossero state incaricate d'intesa con il Governo Conte di studiare un protocollo per l'apertura, di fatto mai discusso dal presidente del Consiglio e i suoi ministri che hanno scelto senza dialogo la chiusura natalizia. Intendiamoci: se il dialogo ci fosse stato, si sarebbe potuto anche decidere alla fine di non aprire per le vacanze natalizie, ma avendo certezze sulla data di apertura e sui "ristori" per il turismo della neve che ha nel mese di dicembre e ad inizio gennaio una parte decisiva dei propri introiti. Questo non è avvenuto per miopia politica, per sciatteria istituzionale e per ignoranza di cosa contino sciatori e famiglie per l'economia alpina. Quanto invece in Svizzera sanno anche le pietre.