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30 ago 2020

Quella mascherina sul volto

di Luciano Caveri

Porto sempre, laddove lo prevedano le regole, questa famosa mascherina. In molti Paesi europei, dove si nota una forte la recrudescenza del virus, questa protezione del viso è stata imposta con molta decisione. Eppure è interessante come questo oggetto che è entrato d'improvviso nella nostra quotidianità sia diventato un simbolo di uno scontro ideologico, prodromico allo scontro che avverrà sul vaccino. A questo proposito già si leggono le prese di posizione contro l'obbligatorietà del vaccino di politici sempre a mezza strada per non scontentare nessuno, specie con l'approssimarsi delle elezioni per corteggiare i famosi "noVax". Come vanificare lo sforzo epocale dei ricercatori, accusati dai soliti noti di essere biechi speculatori al soldo delle cattive e predatorie case farmaceutiche.

Ma torniamo, per carità di patria, a questa mascherina. Forse mai come in questa occasione ho capito da un lato la valenza culturale del travestimento, il cui apice è raggiunto negli antichi riti carnevaleschi di distorsione dei ruoli e di libertà dei costumi e, dall'altra, della terribile privazione della personalità che deriva da più o meno grandi camuffamenti del viso e persino del corpo femminile, frutto di un islamismo che spazia da moderato a radicale, secondo la variabile applicazione del livello punitivo. Sono rispettoso dei precetti religiosi e del famoso relativismo culturale, ma anche libero di dire la mia con rispetto e senza alcun retrogusto razzista. Ho già citato un ammirevole articolo sul tema mascherine dell'antropologa valdostana Elisabetta Dall'Ò, che dice: «Prima che il "coronavirus" si diffondesse sul territorio nazionale, l'immagine - per noi italiani almeno - più familiare associata all'uso "non professionale" delle mascherine era pressoché esclusivamente legata alla consuetudine da parte dei turisti giapponesi e degli "orientali in generale" di indossarle negli spazi pubblici per non diffondere e trasmettere i propri germi agli altri. Una pratica che si basa su di un presupposto culturale di "riconoscimento reciproco", di riconoscimento dell'"altro", e che in questi tempi di emergenza viene invocato attraverso la prescrizione "restate a casa": restate a casa per non diffondere l'infezione, restate a casa perché in prima linea a difendervi dal virus ci sono le categorie dei sanitari, che vanno protetti, restate a casa perché i posti in rianimazione non basterebbero per tutti. Una reciprocità evitante, possiamo dire, che è stata prescritta attraverso l'isolamento fisico dagli altri, nel mantenimento delle "distanze di sicurezza" dal prossimo, e a cui è conseguita la chiusura della quasi totalità delle attività produttive e lavorative in generale. Non entrerò qui nel merito della gestione delle libertà di approvvigionamento e di movimento, né mi occuperò delle nuove forme di "pellegrinaggio sociale al supermercato" che vedono esposte al rischio di contagio molte delle categorie più vulnerabili che non hanno accesso ai dispositivi di protezione individuali (o che non ne riconoscono l'efficacia o le corrette modalità di utilizzo). Mi limiterò a riflettere su come il riconoscimento di questa reciprocità (spesso purtroppo solo invocato) avrebbe potuto, anche e soprattutto nelle fasi iniziali dell'emergenza, trovare applicazione effettiva attraverso l'uso di un dispositivo che evitasse la diffusione del virus a partire dalla fonte diretta - "noi": la mascherina. In queste settimane è diventato virale su "YouTube" un tutorial che descrive le tre differenti tipologie di mascherine in commercio (chirurgiche, con valvola, e filtranti senza valvola) a seconda del loro grado di reciprocità. Le mascherine chirurgiche sarebbero quelle "altruiste", perché in grado di trattenere l'aerosol di chi le indossa ma meno efficienti nel proteggere dal virus in entrata; quelle con valvola considerate "egoiste", perché in grado di isolare dall'esterno ma di emettere attraverso la valvola i virus all'esterno; e infine vi sarebbero quelle "intelligenti" perché capaci della doppia funzione - anche sociale - di riconoscere noi e gli altri come parte di un sistema di reciprocità». Interessante excursus che ci pone di fronte ad un nuovo fenomeno mai vissuto dalle generazioni oggi in vita, sempre che questa mascherina venga presa sul serio, come personalmente ho interiorizzato.