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30 mar 2020

Come non pensare al nostro respiro?

di Luciano Caveri

Massimo Sebastiani su "Ansa" propone una parola alle settimana e colpisce la scelta intelligente di dedicarsi alla parola "Respiro". Ovvio il collegamento con l'attualità e le malattie cagionate dal famoso "covid-19", che ci ha riportato alle nostre primarie funzioni vitali. Sebastiani comincia citando una celebre canzone, le cui prime strofe recitano «Respirare, respirare nell'aria, non aver paura di preoccuparti, parti ma non lasciarmi, guardati intorno, scegli il tuo terreno, a lungo vivi e voli alto, darai sorrisi e piangerai lacrime». ”Breathe in the air", cantavano i Pink Floyd in quello che qualcuno definirebbe il brano più iconico, insieme a "Another Brick in the Wall", della band. "Breathe" era sostanzialmente il pezzo d'apertura dell'album che ha fissato per sempre i Pink Floyd nell'empireo del rock, "The Dark Side of the Moon", un lavoro che Roger Waters, ormai diventato il vero leader del gruppo, immaginò come un concept album dedicato alla follia generata dalle costrizioni, cioè, in fondo, dalla mancanza di respiro. E' stata la prima frase di Mattia, il 38enne di Codogno divenuto celebre suo malgrado come paziente 1, a riportarci di fronte alla semplice bellezza del respiro».

Possiamo dire che per molti di noi, in caso di contagio, questa è la grande paura: questa idea che i polmoni intaccati non ci consentano di respirare per colpa del maledetto virus e l'angoscia passa attraverso la necessità in quel caso di finire in Rianimazione, dove i posti sono risicati. Prosegue poeticamente Sebastiani; «Respirare quindi, per i Pink Floyd significava in un certo senso iniziare (o tornare) a vivere. In questo modo, oltre che alle basi naturali della fisiologia, il gruppo inglese si legava ad una tradizione millenaria che per quanto riguarda l'Occidente affonda le sue radici nell'intuizione di Anassimene. Chi ha qualche memoria del liceo ricorderà probabilmente il terzetto dei cosiddetti primi filosofi, ricompresi nel più vasto gruppo dei presocratici, che avevano scelto ognuno un diverso principio per tutte le cose: i tre amigos della scuola ionica, vissuti nel sesto secolo avanti Cristo, avevano scelto l'acqua, nel caso di Talete, l'infinito, nel caso di Anassimandro e l'aria, nel caso del più giovane Anassimene». L'autore mi fa ripiombare nell'aula del Liceo Classico, dove seguivamo con i miei compagni le lezioni di Filosofia ed eravamo attoniti di fronte a certe elucubrazione, ma poi, ragionandoci, scoprivi mondi di idee. Ricordo quando rispetto a questo respiro universale, fatto di materia, su cui Albert Einstein ha avuto le intuizioni più brillanti dei suoi sistemi, con il mio amico Paolo Valente affrontammo la nostra classe, spiegando come la nostra energia, una volta morti, restava con noi stessi in questa sinfonia che è l'Universo. Pensavamo, naturalmente di essere originali, ma già in tanti lo avevamo capito, millenni prima di noi! Aggiunge Sebastiani: «Per un sedicenne del XXI secolo, a cui basta aver visto qualche puntata di "SuperQuark" o ascoltato su "YouTube" un paio di "Ted Talk" per saperne un po' sulla misteriosa origine dell'universo, queste ipotesi devono sembrare quantomeno bizzarre. Ma se hanno la fortuna di incontrare un professore motivato e attento, magari sanno che l'importanza dei tre non sta tanto nel principio che hanno scelto ma nel modo in cui ci sono arrivati: l'origine del mondo per la prima volta non è spiegata con un mito, affascinante e inverosimile, ma con un ragionamento. E quello di Anassimene, che si spingeva a parlare di rarefazione e condensazione, era semplice e, diremmo oggi, sperimentale: tutto ciò che vive, respira. Da qui all'anima come psychè di Platone e Aristotele il passo era stato relativamente breve: all'origine di questa parola c'è una radice indoeuropea che significa appunto alito, respiro. E d'altra parte la traduzione greca della Bibbia sceglie proprio "psychè" per il sostantivo ebraico "nefesh" che è connesso alla respirazione e agli organi che la rendono possibile. E "spiritus" ha la stessa radice di "respiro". La cui origine etimologia risiede nella parola respirium da respirare che altro non significa che: soffiare dentro, soffiare indietro». L'altro giorno un amico, che ha i genitori vittima del "coronavirus" e sono stati intubati per non morire, raccontava di questa suggestione di avere il fiato corto e la sera, steso nel mio letto, ascoltavo io stesso il mio respiro alla ricerca di chissà quale imperfezione su di un gesto che ci tiene in vita e che, meccanicamente, dimentichiamo con facilità e torno quando il soffio diventa flebile. Sebastiano scava ancora: «Dunque ciò che ci fa vivere, l'anima o lo spirito, è legato al respiro. E infatti tutte le espressioni negative che fanno riferimento a questa parola rimandano ad una piccola morte o al timore che essa possa sopraggiungere: "togliere il respiro", "senza respiro", "non dare respiro", "respiro mozzato" o anche solo corto, e al contrario "respiro di sollievo", "trovare respiro", eccetera. Per non parlare dei danni che, da questo punto di vista, può fare l'amore: "Se mi guardi così - dice Meredith a Derek in una puntata di "Grey's Anatomy" - non riesco a respirare". I Pink Floyd poi sono andati un po' più in là (d'altra parte se "The Dark side" è stato uno degli album più venduti della storia un motivo deve esserci) e hanno cantato come abbiamo sentito "respira nell'aria e non aver paura di prenderti cura di qualcosa". La musica, per esempio quella italiana, è piena di respiri, per così dire: "sono respiri che sembrano semplici", come per Battisti e Mogol in "Amarsi un po'", ecologici, come quelli di Celentano ne "Il ragazzo della via Gluck" («mentre là in centro io respiro il cemento»), di complicità, come per Renato Zero in "Amico" («io e te lo stesso respiro»), di libertà come quello di Loredana Berté in "In alto mare" («Sull'onda che ti butta giù, e poi ti scaglia verso il blu, e respirare»). Ma il respirare e il prendersi cura, cioè il respirare come empatia, cui sembrano accennare i Pink Floyd in "Breathe", ci porta in una dimensione diversa, che poi è quella in cui forse siamo precipitati tutti, anche contro la nostra volontà, in queste ultime settimane». Nell'angusta logica domestica, rispetto ai nostri vasti spazi alpini, ragiono spesso su quanto la nostra prigionia volontaria sia dura. E la tentazione della trasgressione evidente, quando vedi boschi di cui conosci i sentieri segreti, dove respirare a pieni polmoni quell'aria più frizzante e ricordi le sciate lunghe e intense dalla cima della pista sino in fondo con quel fiatone che ti fa sentire vitale. Conclude Sebastiani: «La saggezza antica aveva provato a spiegarcelo: dal "pranayama", il quarto stadio dello yoga che ci induce a regolare il respiro per incidere anche sul nostro comportamento, e dunque non tenere separati corpo e mente, al discorso del Budda sulla consapevolezza del respiro che parla, similmente, di "presenza mentale del respiro", al respiro nella meditazione zen che è abbandono e ascolto puro, fino al respiro diaframmatico consigliato ormai in qualunque ginnastica posturale anche in virtù della estrema attenzione al diaframma considerato ormai uno dei muscoli più importanti del nostro corpo con un legame molto diretto con il tono dell'umore. E' quel respiro a cui non facciamo mai abbastanza caso, che diamo per scontato, proprio come Lucio Battisti, e che invece ci tiene vivi. Quel respiro che il virus vuole toglierci ma che paradossalmente la quarantena può spingerci a reimparare, magari seguendo uno dei tanti corsi online. Un respiro che, come spiega nel finale di "Cast away" Tom Hanks, è legato alla speranza e all'ostinazione di vivere». Già, che tragedia pensare a chi - specie anziano - sente la vita che gli sfugge in quei respiri affannati, senza una mano o un volto amico e a causarlo è un virus infinitesimale e questo chissà quanti ragionamenti creerebbe nella testa fine di un filosofo della Grecia antica.