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09 mar 2020

Valle d'Aosta: epidemie del passato

di Luciano Caveri

Bisogna con lucidità, rispetto a questo maledetto "coronavirus", confidare nella scienza medica e nelle molte équipe che in tutto il mondo stanno lavorando per un vaccino, ed è bene prendere sul serio tutte le misure di igiene e di sanità pubblica che si stanno prendendo, anche se - beninteso - stanno cambiando molte delle nostre abitudini. Si tratta, però, di un'assicurazione sulla vita, specie per le fasce più a rischio. Se si pensa alle epidemie del passato non si può che essere rassicurati sull'oggi, perché diversamente attrezzati, rispetto ai tre delle più noti contagi che toccarono la Valle nei secoli passati e chissà che cosa ci può essere stati nei periodi su cui non abbiamo documentazione.

Patrizio Vichi, nella presentazioni di un suo film che la "Rai" mandò in onda qualche anno fa, ricordava: «Nel 1976 Marco Ansaldo raccontò la storia della grande pestilenza che nel 1630-1631 devastò la Valle d'Aosta, l'Italia e parte dell'Europa. La guerra per Mantova ed il Monferrato che la Spagna e l'alleata Savoia combattevano contro la Francia implicava l'attraversamento della Valle da parte di numerosi eserciti. Furono proprio i trasferimenti di quelle truppe a far dilagare la peste. Tra il 27 marzo ed il 13 aprile 1630 la Valle vide l'andata ed il ritorno del reggimento, circa seimila soldati, del principe Tommaso di Savoia. Il 19 aprile seguente venne registrato a Donnas il primo caso di peste. Da quel giorno e fino all'autunno del 1631, il contagio travolse e sommerse persone e cose. Secondo i calcoli, le vittime di quella pestilenza, qui in Valle d'Aosta, furono settantamila. Il 7 agosto 1630 il Conseil des Commis, l'organo di governo del ducato di Aosta, che allora si riuniva oltre il ponte Suaz, zona non ancora colpita dal contagio, per cercare di far fronte all'immane tragedia, fece un solenne voto per implorare l'aiuto divino. Venne deciso che ogni anno si sarebbe festeggiata la presentazione della Vergine al tempio e che alcuni valdostani, appena possibile, sarebbero andati a piedi in pellegrinaggio alla Madonna di Loreto per portare duemila ducatoni per la realizzazione di un dono alla Vergine». Ed è quanto avvenne davvero e Vichi lo ha raccontato in suo documentario: «I sei pellegrini, non si sa se volontari o meno, erano: Claude Lostan, canonico della cattedrale e Michel Savoye, canonico di Sant'Orso, in rappresentanza del clero; Antonio Gal, signore di Brissogne e Jean-Gaspard Sarriod d'Introd per i nobili; Pantaléon Jotaz, mercante di Aosta e Michel Vives, figlio del castellano di Quart per il terzo stato, la borghesia. Il 22 luglio 1644, accompagnati da tutta la città fino all'arco di Augusto, i sei partirono. (…) I pellegrini valdostani arrivarono a Loreto il 21 agosto dopo trenta giorni di cammino. Avevano percorso circa 680 chilometri, tanti ne dista infatti il santuario mariano da Aosta». Cambiamo secolo e vediamo quanto ha scritto Omar Borettaz per il giornale del Comune di Pontey: «Il più grave contagio di cui le nostre popolazioni siano state vittime dopo la peste del 1630, fu tuttavia il colera, un morbo di origine indiana, che colpì le comunità valdostane soprattutto tra il mese di maggio e l'inizio di settembre del 1867, preceduto da episodi di portata meno grave in termine di vittime. Già nel 1835, verificatisi i primi casi di colera a Genova e Como, la Valle d'Aosta si era preparata ad affrontare il pericolo, predisponendo le misure sanitarie necessarie ad arginare la temuta epidemia. Quello stesso anno, il Comune di Pontey aveva insediato una commissione, composta dal sindaco e da due consiglieri, incaricata di cercare un luogo adatto a servire da lazzaretto per i poveri del luogo. Fortunatamente, in quell'occasione l'allarme si era rivelato eccessivo. Nel 1854 una epidemia era scoppiata a Verrès, ove aveva colpito in una trentina di giorni poco meno di un centinaio di persone, causando 45 decessi. Da Verrès il colera si era trasmesso a quasi tutti i paesi della bassa Valle, fermandosi alla chiusa di Saint-Germain. Tredici anni dopo, verso la fine del mese di aprile, il contagio fu riportato nella regione da un commerciante di carbone di Bergamo, curato e guarito nell'ospedale Mauriziano di Aosta, e da un conducente di carrozze reduce da un viaggio a Ivrea, deceduto il 29 aprile. L'epidemia avrebbe potuto forse essere limitata a questi casi, ma le autorità locali sottovalutarono il problema e tardarono a prendere le misure necessarie ad arginarla. (…) Il dottor Alliod - medico dell'ospedale Mauriziano impegnato nella cura dei malati dei suoi distretti di Quart e Verrès - fornì una drammatica descrizione dell'evoluzione della malattia e dei suoi effetti sull'organismo umano: "Dans les premiers temps de l'épidémie, les attaques survenaient le plus souvent d'une manière brusque et inattendue; elles vous surprenaient au milieu de vos occupations, ou pendant le sommeil. La maladie débutait par une grande anxiété précordiale et par une diarrhée plus au moins prononcée; presque aussitôt venaient s'y ajouter les vomissements, et la diarrhée, devenue séreuse et couleur de la décoction de riz, prenait des proportions étonnantes; on aurait dit que tous les liquides de l'économie se précipitaient comme un orage vers les intestins. En même temps, le corps maigrissait prodigieusement en quelques heures; les traits s'altéraient au point de rendre l'individu méconnaissable. Ses yeux s'enfonçaient, devenaient cernés et perdaient leur transparence. Le malade éprouvait une soif ardente, des crampes plus ou moins vives et une chaleur douloureuse à l'épigastre. Le corps se refroidissait, la peau perdait son élasticité, le pouls devenait petit; la voix était faible et quelquefois éteinte; il y avait de la dypsnée et une agitation extrême; en un mot, toutes les fonctions étaient suspendues: un travail de dissolution dominait la scène et l'asphyxie la terminait. Cependant, au milieu de cette décomposition générale des forces de l'économie, le cerveau restait calme et l'intelligence intacte"». Un ritratto abbastanza impressionante ed appunto la medicina si ritrovava inerme, come avvenne in parte ancora poco più di un secolo fa. Anselmo Pession sul giornale del Comune di Saint-Christophe ha scritto: «Nel XX secolo l'ultima grande epidemia fu quella della cosiddetta "spagnola". Questa forma influenzale, che tra l'ottobre del 1918 e i primi mesi dell'anno successivo colpì un quinto della popolazione mondiale provocando una scia di morti incalcolabile, resta ancora oggi un mistero. Arrivò e scomparve all'improvviso manifestandosi brevemente nella primavera e infuriando poi in autunno e in inverno. L'Italia, uno dei paesi europei più colpiti dopo la Russia, dichiarò almeno 375.000 vittime, ma non sappiamo quanto fu nascosto per evitare di demoralizzare ulteriormente le popolazioni sfinite dalla guerra. In Valle d'Aosta i morti furono 1.286 e, questa volta, all'infuori di Bionaz e Avise già risparmiate nel 1867, ogni paese contò le sue vittime. A Saint-Christophe quell'anno morirono 39 persone, di cui 15 per l'epidemia». Da allora in poi, grazie ai continui progressi della medicina e delle condizioni di vita, queste calamità colpirono sempre meno le nostre popolazioni, anche se ora sembrano essere rimpiazzate da nuove malattie sempre più refrattarie ad ogni tipo di cura. Noi, discendenti di coloro che soffrirono e sopportarono queste calamità, non possiamo che ricordare e rispettare le loro tribolazioni. Potrebbero essere indicate a questo scopo le parole con cui il "Messager Valdôtain" del 1920 terminò la lunga relazione su quest'ultima epidemia: «Autour de cet évènement fâcheux il s'est fait peu de bruit, il n'ya eu que le silence. Silence des journaux au moment où l'épidémie promenait ses ravages, afin de ne pas répandr e la frayeur par des nouvelles accablantes. Silence des personnes qui se sont dévouées et qui avaient mieux à faire que de se donner en pâture à l'admiration populaire. Silence des populations bénéfìciées, qui sont en général plus capables d'éprouver un noble sentiment que de l'exprimer. Silence des autorités civiles lesquelles, absorbées par les exigences de la guerre et par les réjouissances de la paix n'ont pas eu un regard d'approbation, un mot de reconnaissances pour les braves qui, en cette triste conjoncture, se sont sacrifiés de façon si exemplaire. Puissent ces pages, si incomplètes soient-elles, réparer en partie ces oublis et rappeler à nos petits-fils cette heure sombre que nous avons traversée, avec tant d'autres, au cours des quelles, pourtant, l'espérance ne nous a jamais abandonnés». La Storia insegna che bisogna mantenere i nervi saldi.