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03 mar 2020

Il "coronavirus" per pensare

di Luciano Caveri

Sarà il tempo a dirci chi vincerà il derby sul "coronavirus" fra chi è catastrofico e pensa a chissà quali esiti nefasti e chi è ottimista e ritiene che le misure assunte siano sproporzionate. Personalmente propendo per una soluzione mediana in attesa di capire l'esatto esito e non appartengo dunque a nessuna delle due tifoserie, ormai armate l'una contro l'altra. Anche se poi, per creare confusione, ci sono politici a pessimismo-ottimismo a corrente alternata, un giorno preoccupatissimi all'eccesso e un giorno lassi al contrario. Noto solo - ed è un'annotazione politica - che l'emergenza è servita a rinforzare, partendo da Giuseppe Conte a Palazzo Chigi per caso e non per meriti, una corrente antiregionalista nel nome - udite, udite! - dell'efficienza dello Stato centrale. Roba da manicomio, naturalmente, perché se una materia dev'essere su base regionale - nel rispetto di principi di eguale bontà delle prestazioni erogate al cittadino - è quella sanitaria. Quando sento da autorevoli esponenti del Partito Democratico, spesso ormai a trazione "grillina", che tocca a Roma decidere mi vengono i brividi, ma osservo come il regionalismo sia ormai visto con sospetto e questo servirà prima o poi ad una svolta centralista, se non autoritaria.

Mi è molto piaciuto, per la capacità di straniamento di fronte a questa situazione surreale che ha colpito ciascuno di noi disabituati come siamo a certe emergenze, un commento - a mo' di poesia - di "Mangino Brioches", blogger e giornalista che seguo anche su "Twitter" e che per "HuffPost" ha così argomentato con arguzia: «Tu, tu che compri ventotto pacchi di pasta. Tu, tu che cerchi l'amuchina al mercato nero. Tu che giri con la mascherina, anche se ti hanno detto che non serve a niente, a meno che tu non sia malato. Tu che hai fatto incetta di mascherine inutili, e nemmeno le metti perché ti senti ridicolo, in fondo, ma saperle in tasca, nel cassetto, ti fa sentire meglio, ti fa sentire uno che sta controllando la situazione. Tu che progetti la fuga di tuo figlio da una regione dove ci sono dieci positivi al coronavirus (non "infetti", non "malati", solo positivi al test). Tu che stai connesso 24 ore al giorno, e aspetti i bollettini, la conta, più cinquanta, più cento, e ti senti sotto assedio. Tu che un giorno minimizzi e un giorno sei nel panico, un giorno "poco più di un'influenza" e un giorno "peste nera", un giorno pensi che gli scienziati ti salveranno e un giorno torni a pensare che siano "professoroni" arroganti. Tu che pensi che sia meglio un posto di blocco in più che un posto letto in più all'ospedale. Tu che "la nostra sanità pubblica è la migliore del mondo", ma eri d'accordo con chi la voleva sempre più privata. Tu che "dobbiamo coordinare tutto", ma applaudi ai proclami di quelli che vogliono "pieni poteri" per ogni sindaco, ogni cantone, ogni condominio. Tu che lo vorresti proprio conoscere, questo "paziente zero" che se n'è infischiato di te, e com'è possibile, eri tu quello che se ne infischiava di tutti, non è giusto. Tu che "tanto, il virus uccide solo i vecchi e i malati". Tu che ti senti meglio alle parole "chiudere, sbarrare, impedire, controllare", e pensi che sono anni che si sarebbero dovute usare, quelle parole, e accidenti ai buonisti che non lo hanno permesso. Tu che a un certo punto sei chiuso, sbarrato, impedito, controllato, "trattato come un pacco", come una sostanza pericolosa, e giustamente protesti, e nessun buonista si occupa di te, accidenti. Tu che sì, ti senti in guerra, sì, hai paura che i supermercati finiscano le scorte, e quindi, un uomo in guerra e con lo spettro della fame non ha forse diritto di proteggere se stesso e la sua famiglia? Tu che vai all'estero per lavorare, eppure ti vogliono mettere in quarantena perché sei diventato tu lo straniero sgradito, sei diventato tu quello che trova i porti chiusi, sei diventato tu quello "che porta le malattie". Tu, per cui la guerra e la fame e la paura degli altri non sono mai abbastanza, non sono mai vere. Tu, italiano, un certo tipo d'italiano, al tempo del coronavirus».

Ma segnalo qui la forza della cultura attraverso la magistrale lettera che il preside del Liceo "Volta" di Milano, Domenico Squillace, ha scritto a tutti gli studenti della scuola e pubblicato sul sito: «"La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia...". Le parole appena citate sono quelle che aprono il capitolo 31 dei "Promessi Sposi", capitolo che insieme al successivo è interamente dedicato all'epidemia di peste che si abbatté su Milano nel 1630. Si tratta di un testo illuminante e di straordinaria modernità che vi consiglio di leggere con attenzione, specie in questi giorni così confusi. Dentro quelle pagine c'è già tutto, la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto "paziente zero", il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l'emergenza sanitaria… In quelle pagine vi imbatterete fra l'altro in nomi che sicuramente conoscete frequentando le strade intorno al nostro Liceo che, non dimentichiamolo, sorge al centro di quello che era il lazzaretto di Milano: Ludovico Settala, Alessandro Tadino, Felice Casati per citarne alcuni. Insomma più che dal romanzo del Manzoni quelle parole sembrano sbucate fuori dalle pagine di un giornale di oggi. Cari ragazzi, niente di nuovo sotto il sole, mi verrebbe da dire, eppure la scuola chiusa mi impone di parlare. La nostra è una di quelle Istituzioni che con i suoi ritmi ed i suoi riti segna lo scorrere del tempo e l'ordinato svolgersi del vivere civile, non a caso la chiusura forzata delle scuole è qualcosa cui le autorità ricorrono in casi rari e veramente eccezionali. Non sta a me valutare l'opportunità del provvedimento, non sono un esperto né fingo di esserlo, rispetto e mi fido delle autorità e ne osservo scrupolosamente le indicazioni, quello che voglio però dirvi è di mantenere il sangue freddo, di non lasciarvi trascinare dal delirio collettivo, di continuare - con le dovute precauzioni - a fare una vita normale. Approfittate di queste giornate per fare delle passeggiate, per leggere un buon libro, non c'è alcun motivo - se state bene - di restare chiusi in casa. Non c'è alcun motivo per prendere d'assalto i supermercati e le farmacie, le mascherine lasciatele a chi è malato, servono solo a loro. La velocità con cui una malattia può spostarsi da un capo all'altro del mondo è figlia del nostro tempo, non esistono muri che le possano fermare, secoli fa si spostavano ugualmente, solo un po' più lentamente. Uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l'avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l'imbarbarimento del vivere civile. L'istinto atavico quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore. Rispetto alle epidemie del XIV e del XVII secolo noi abbiamo dalla nostra parte la medicina moderna, non è poco credetemi, i suoi progressi, le sue certezze, usiamo il pensiero razionale di cui è figlia per preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità. Se non riusciremo a farlo la peste avrà vinto davvero».