Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
03 dic 2019

L'alpinismo fra ricerca di regole e business

di Luciano Caveri

Per chi si occupi dei problemi della montagna non mancano mai spunti di riflessione. Colpiscono certi elementi simbolici, che servono per capire le trasformazioni in atto. E' il caso dell'alpinismo che, cominciando dalle Alpi, si è poi sviluppato sulle montagne di tutti Continenti con evoluzioni enormi nelle tecnologie e nelle mentalità. Per quanto di sicuro le montagne fossero già - al di là delle superstizioni che avvolgevano le vette - terreno d'elezione per i montanari attraverso i millenni, si fissa per ragioni storiche l'origine dell'alpinismo verso la fine del diciottesimo secolo, prendendo come evento scatenante la prima ascensione del Monte Bianco, la cima più alta dell'Unione europea ("d'Europa" crea discussioni!), che avvenne - come impresa di grande ampiezza nel mondo di allora - nell'estate del 1786. All'epoca esisteva una logica esplorativa, frammista alla ricerca scientifica, mentre oggi siamo di fronte ad una sfida di carattere sportivo, che assume aspetti estremi per i campioni. Esiste poi una massa di alpinisti che aspirano a scalate che segnino non solo il loro curriculum ma la loro stessa vita.

Sono due le circostanze che colpiscono nel guardare le Alpi e il loro principale contraltare, l'Himalaya. La prima, emersa con nettezza nei mesi scorsi, riguarda - con epicentro sempre il Monte Bianco, pur a distanza di secoli - la necessità di regolare il traffico verso la cima sia per una certa crescente pericolosità per condizioni climatiche che mutano le condizioni per la scalata sia per evitare che si creino ingorghi sul percorso lato francese. Poi se ne sono viste di tutti i colori: alpinisti che non prenotano i rifugi e si trovano all'addiaccio, dilettanti allo sbaraglio senza attrezzatura che rischiano la vita loro e dei soccorritori, genitori con minorenni fermati dalla Gendarmerie, persino un inglese che ha lasciato in zona un attrezzo per fare palestra (portato via poi con l'elicottero). Cito Didier Arnaud che scrive si montagna su "Libé": «Un Allemand a ainsi réalisé l'ascension avec son chien, redescendu en vie, mais les pattes en sang. Un Russe, parti avec son gamin de dix ans a été bloqué par les gendarmes à plus de 2.500 mètres. Il y a eu aussi ces touristes Suisses qui ont emporté avec eux un "Jacuzzi" gonflable, ou ce guide, essayant de grimper les pieds nus. On pourrait ajouter à la liste ce jour où deux Suisses ont atterri avec leur avion de tourisme floqué d'une marque de montres de luxe, en toute illégalité, entre le Mur de la Côte et les Rochers rouges supérieurs. Les compères se sont ensuite lancés dans l'ascension des derniers mètres jusqu'au sommet, en technique alpine...». Queste notizie hanno rilanciato quell'idea, certo balzana, di numero chiuso vero e proprio che ha fatto accapponare la pelle agli amanti delle pareti e delle alte quote, così come non avrebbe senso che, a fronte dei rischi legati all'alpinismo, si volesse sempre e comunque, in caso di incidente, appurare le responsabilità, cercando ad ogni costo un colpevole. Chi sale oltre ad una certa quota, a meno di comportamenti penalmente rilevanti, ha consapevolezza dei rischi che corre, perché basta poco per trovarsi in difficoltà in un ambiente ostile e con pericoli scientemente assunti. Leggevo poi - seconda novità rilevante - su "Montagna.tv" Francesca Cortinovis sul sogno himalayano, che spinge molti a spedizioni laggiù ed in particolare sulla scalata all'Everest rispetto al fatto, di per sé elitario, che «rincorrere il proprio sogno è terribilmente costoso e lo diventa ogni anno di più». Osserva la Cortinovis: «Uno dei motivi per cui molti alpinisti sceglievano di scalare l'Everest dal versante nord, quello tibetano, era il prezzo inferiore dei permessi rispetto al Nepal. Un vantaggio economico che andrà a scomparire con la prossima stagione alpinistica 2020. La Cina ha infatti annunciato che il permesso di scalata, che fino ad ora costava 9.950 dollari, è aumentato del 58 per cento arrivando al prezzo di 15.800 dollari a persona. Considerando che il costo di un permesso rilasciato dal Nepal è di 11.000 dollari, dalla prossima primavera sarà ufficialmente più caro scalare il versante nord. Se questo avrà qualche impatto sul turismo alpinistico della montagna bisognerà attendere. Se in Cina aumentano i prezzi, il versante sud dell'Everest rimane ancora avvolto dalle nuvole. Il Nepal infatti è in una situazione delicata: da un lato deve affrontare le conseguenze, anche d'immagine, delle code della scorsa stagione sulla montagna e le relative accuse di voler fare solo cassa a spese della sicurezza di tutti; dall'altro è alle prese con un'aggressiva campagna di marketing per far aumentare il turismo nel Paese durante il 2020. Un'operazione che in realtà il Nepal sta conducendo in modo intelligente, spingendo non tanto sulle grandi montagne conosciute, ma piuttosto aprendo nuove cime all'alpinismo, anche gratuitamente. Per risolvere la spinosa questione dell'Everest, sono state avanzate diverse idee nei mesi scorsi, ma nessuna al momento è stata ufficialmente adottata. Inizialmente si era parlato di limitare i permessi, ma ciò avrebbe avuto conseguenze disastrose su un business che genera un indotto di 300 milioni di euro durante la stagione primaverile (non briciole per un paese ancora povero come il Nepal). Erano poi state proposte regole relative alle abilità, al curriculum e alle condizioni di salute minime degli alpinisti, ma anche in questo caso è stato un nulla di fatto. Sembra che ora si stia iniziando a discutere di innalzare il costo della quota a persona per la spedizione a un minimo di 35mila dollari, permesso incluso. Questo eviterebbe, in teoria, la guerra al ribasso dei prezzi delle agenzie nepalesi, con rischi di risparmi sulla sicurezza. Si parla anche di un possibile aumento del permesso di scalata, che potrebbe adeguarsi ai nuovi costi cinesi». Giunge a questo punto un interrogativo posto dalla giornalista: «Everest, una montagna solo per ricchi?». La risposta non è incoraggiante: «Che questa tendenza stia già avvenendo è sotto gli occhi di tutti e le agenzie nepalesi si stanno adeguando alla richiesta con offerte da capogiro per servizi sempre più esclusivi, lo si era già visto la scorsa primavera. A memoria però nessuno aveva ancora osato proporre un prezzo di addirittura 160mila dollari a persona. Lo ha fatto la Seven Summit Treks mettendo a listino la "Platinum Everest Expedition". Una cifra grazie alla quale l'esperienza sarà di lusso: letto king size al campo base; cucina gourmet con frutta fresca, acqua minerale, cane, ecc.; tende private anche ai campi alti; un tour in elicottero attorno all'Everest per fare le foto (magari non si arrivasse in cima); ossigeno illimitato; medico personale h24; telefono satellitare h24; servizio video e foto per tutta la durata delle spedizione; assistenza di una guida certificata UIAGM e tanto altro. Come la pensiamo circa questo modo di fare alpinismo, non lo abbiamo mai nascosto. Una domanda però vogliamo porla: desideriamo davvero che questo sia il destino del Tetto del Mondo?». Direi che si deve concordare su dubbi e preoccupazioni per questo business. Certo l'aspetto alpinistico che colpisce ulteriormente sta proprio nella follia commerciale delle salite sulle grandi grandi cime himalayane: si trascinano in vetta in certe spedizioni persone di tutti i generi, età e condizioni fisiche, perché basta che paghino profumatamente e forse non tutti sono consapevoli dei rischi che corrono ad affrontare imprese di questo genere su Ottomila che non perdonano.