Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
05 dic 2019

Non è la Montagna che uccide

di Luciano Caveri

Leggo con sgomento le cronache della morte di Edoardo e di Luca, freerider finiti sotto una valanga ai piedi del Monte Bianco. Ritrovo nei racconti dei fatti e nella biografia dei due scomparsi un tragico copione che ho vissuto come cronista, come amico, come studioso del mondo della montagna, come semplice lettore. Esiste ormai di fronte alle morti in montagna di questo genere, vale a dire di persone che erano preparate e consapevoli dei rischi laddove si è scatenato l'evento, il rischio di cadere nella peggiore retorica sulla morte "eroica" o peggio ancora nella storia della montagna che chiede un tributo di sangue a chi la frequenta. Non esiste, se non nel peggior giornalismo, una «montagna assassina», come se fosse una specie di dea Kālī dell'induismo che godrebbe del sacrificio di vite umane. Idee dozzinali: non è l'ambiente naturale in cui agiamo il colpevole, trasformato appunto in chissà quale entità con comportamenti e sentimenti, ma siamo noi esseri umani che in montagna ci andiamo a compiere errori fatali. E' triste ma è così.

Le valanghe non sono una maledizione originata non si sa da dove, ma un fenomeno di cui ormai siamo in grado realisticamente di prevede l'origine e gli sviluppi, che i professionisti della montagna e chi la frequenta con piena consapevolezza conoscono e persino studiano nei corsi di formazione. Malgrado questo, capita anche a loro di restarci sotto con lo sgomento di chi li conosceva e il dolore di chi gli ha voluto bene e non si capacita di un errore o di un'imprudenza ed è comprensibile trovare conforto in un terribile Fato che colpisce come un fulmine di Zeus che viene scagliato sulla Terra dal Monte Olimpo. Ho già citato in passato uno studio della "Accademia della Montagna" di Trento, all'interno di un progetto pluriennale dedicato al rischio valanghe che ha coinvolto a vario titolo le università di Trento, Padova e Verona, oltre alla "Fondazione Bruno Kessler". Secondo gli esperti ci sono due errori cognitivi rilevabili nel comportamento di quanti decidono di esporsi a situazioni pericolose e ne rimangono vittime: l'overconfidence, cioè la convinzione di sapere più di quanto effettivamente si sappia, e l'attitudine al "risk taking", cioè la propensione a mettere in atto comportamenti rischiosi. Nel primo caso, a detta dei ricercatori, l'errore sarebbe imperniato sull'illusione di poter tenere sotto controllo eventi del tutto accidentali, ed inoltre esisterebbero un eccesso di sicurezza e la pretesa di aver assimilato una conoscenza approfondita dell'ambiente montano come riparo contro le incognite. Nel secondo caso, l'errore sarebbe dovuto alla sottovalutazione della probabilità che si possa incorrere in eventi negativi, ma anche alla propensione individuale a mettere in atto comportamenti a rischio e sappiamo come certe imprese avvengano a favor di telecamere, in primis le "GoPro" con cui rivivere le imprese e condividerle sul Web. Questa miscela crea un eccesso di confidenza, porta ad una voglia di superare i limiti e spinge a questa idea balzana, ma umanissima, del «mai a me», che spinge non solo novellini, ma gente seria e preparata a finire in itinerari bellissimi ma potenzialmente letali. Capita ogni giorno con gli incidenti stradali, figurarsi in un ambiente come quello dell'alta montagna, borderline per definizione. La storia dell'alpinismo, fratello maggiore degli sport della neve, è piena di storie analoghe di giovani vite stroncate e lì l'aspetto quasi epico della competente del rischio come elemento di nobiltà di uno sport estremo ha un suo aspetto persino teorizzato e con una mistica deteriore. Troppi morti fuoripista hanno esteso a nuove frontiere della neve questa medesima filosofia da sradicare per i pericoli che ne conseguono e lo vediamo purtroppo in Valle d'Aosta e su tutte le Alpi con morti che risultano alla fine banali nella loro dinamica con un pendio da sverginare e una valanga che - con condizioni annunciate dagli appositi bollettini - piomba sugli sciatori. Nel rendere il giusto omaggio a chi muore in queste circostanze, bisogna avere il coraggio di sperare in un "mai più", proprio perché le morti non siano solo un doloroso ricordo ma un'occasione per evitare la riproposizione di eventi simili. La montagna non si può chiudere con il filo spinato e non può essere riempita di cartelli minacciosi, contano di più l'educazione e la moral suasion e, comunque sia anche se può non piacere, la libertà di rischiare resta pur sempre un diritto che si ferma però di fronte ai rischi che corrono i soccorritori.