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26 giu 2019

"Fascista!" - "Comunista!"

di Luciano Caveri

Sull'uso delle parole, comunque sia, bisognerebbe essere equilibrati. Lo dico in primis a me stesso, che quando capita l'embolo sono o forse ero pronto anche all'uso di epiteti provocatori, ma - con il passare degli anni - mi sono fatto meno graffiante e trovo che usare il fioretto piuttosto che la sciabola o la clava sia altrettanto, se non più efficace. E di questo mi convinco sempre di più in questo gorgo di volgarità in cui stiamo precipitando. Nel caso italiano, dove ormai la rozzezza ha raggiunto livelli stellari, stranisce l'uso disinvolto di due parole usate come bomba esplosiva - forse considerata come arma letale fra avversari - che sono "fascista" e "comunista". Per chi, come me, è "federalista" le due visioni totalitarie sono oggetto di analisi attenta, storicamente circostanziata, senza negare che le definizioni possano tranquillamente essere adoperate fuori dal contesto in cui si inseriscono normalmente, ma con tutte le cautele del caso e mai a casaccio per semplice disprezzo verbale.

La dittatura fascista e l'utopia comunista, per chi è contrario allo Stato-Nazione giacobino e totalizzante, sono condannabili per l'esito incarnatosi nei regimi che sono nati e si sono sviluppati in quel filone. Poi - per evitare equivoci - il comunismo italiano ha sempre scelto vie di partecipazione alla Resistenza e alla costruzione della Repubblica che consentono, senza fare sconti sul socialismo reale e le brutture di tiranni vari nel mondo, di considerare con una qualche diversità chi si avvicinò ad un'ideologia che avrebbe dovuto essere liberatrice e nei fatti - perché questo conta - non lo è stato. Non a caso il Partito Comunista Italiano cambiò nome e posizionamento e solo alcuni nostalgici agitano ancora la bandiera rossa con falce e martello. Tuttavia è ora di dire che ogni eccesso ideologico sortisce cattivi risultati, che sia fondamentalismo religioso, dogmatismo ideologico, intolleranza verso chi la pensa diversamente, intransigenza che impedisce il dialogo. Mi sono stufato di steccati, muri, detto e non detto, chiusure a riccio e ogni altra logica che impedisca quel gioco democratico che deve essere valore fondante della civile convivenza. Questa forza tranquilla e serena, che scalderà meno i cuori di parole d'ordine, comizi infuocati, nascita della logica amico/nemico, fantasmi fantocci innalzati per aizzare il popolo. Atteggiamento che fa il pari, come gravità, con chi si chiude nelle segrete stanze, crea maggioranze come le pozioni delle fattucchiere, evita il confronto vero con logiche felpate di manfrine, dice una cosa e ne fa un'altra contando sulla stolidità dei cittadini meno accorti. L'altro giorno, rispondendo ad un mio messaggio gravido di scoramento, un'amica mi ha scritto «di non essere negativo» e, sul breve, mi sarei mangiato il telefonino dov'è apparso questo messaggio. Lo avrei fatto perché sono stufo di essere comprensivo e di vedere come alla fine si digerisca tutto nell'autoconvincimento che prima o poi dal tunnel si potrà uscire con una forza d'inerzia che dovrebbe trascinarci in chissà quale mondo migliore con una magia alla Harry Potter. Quando si tratterebbe di capire come le regole democratiche, quelle vere, richiedano davvero, in momenti di difficoltà, una sorta di tabula rasa, che non è fatta di giochini che sfocino solo nel posizionamento astuto e nel perpetrare vecchie storie cui si dà una mano di biacca per dare l'idea di uno sfavillante rinnovamento. Il famoso "cambiamento" rende meraviglioso certo passato e non per una visione passatista e nostalgica, ma perché si avverte forte il peso dell'inganno di un estremismo come affermazioni di sé stesso, che sia destra, sinistra o palude stigia del «non fare, ma solo dire» che diventa una vera maledizione per tutti. Esiste un estremismo di centro, che è affondare nel déjà-vu e nell'idea che il popolo bue può digerire tutto, se solo si fa una bella faccia e le dichiarazioni sono quelle rassicuranti di un curato di campagna. Non riesco neanche a proseguire e mi limito a citare lo storico inglese settecentesco Edward Gibbon, quando scriveva: «Ogni volta che lo spirito del fanatismo, al tempo stesso così credulone e così astuto, si insinua in un animo nobile, corrode a poco a poco i principi vitali della virtù e della verità».