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17 gen 2019

«Posto, ergo sum!»

di Luciano Caveri

Visto che non ci sono preclusioni a scherzare sui filosofi, vorrei prendere a prestito la celebre formula di Cartesio «Cogito, ergo sum» («Penso, dunque sono»), che esprime la certezza e l'evidenza immediata, intuitiva, con cui il soggetto pensante coglie la propria esistenza. Oggi, usando l'italiano e non il latino, perché a cavallo fra Cinquecento e Seicento, epoca in cui visse René Descartes, Internet non c'era e dunque manca il verbo in latino, si potrebbe dire che per molti nostri consimili vale il «Posto, dunque sono», dal verbo ricopiatura dall'inglese "postare", cioè pubblicare uno scritto, una foto, un video su di uno dei "social" sul Web. Attività sempre più corrente e sono in tanti - me compreso - a usare qualcuno di questi mezzi. Io posto da anni questi post sul mio Blog, ma in parallelo cinguetto su "Twitter". All'epoca di Descartes gli unici uccelli che si occupavano di comunicazione erano i piccioni viaggiatori.

Questa idea di un'esistenza digitale che si mischia a quella in carne ed ossa è una significativa novità di questi anni, che sta cambiando la nostra vita e persino la nostra postura. Oltreché naturalmente mutano le nostre facoltà mentali, la nostra capacità di concentrazione e pure la nostra socialità. Già, la socialità: una delle chiavi di lettura del nostro essere. Lo diceva Aristotele: «L'uomo è per natura un animale sociale». Un tempo su di un pullman o di un treno, in una sala d'aspetto o in una coda, seduti al tavolo di un bar o su di una sdraio in spiaggia non si stava cocciutamente ingobbiti sul proprio apparato in Rete, si cercava - perché nella nostra indole - un rapporto umano che fosse un sorriso, uno sguardo, una frase e persino una conversazione. Sono spazi che si sono rarefatti proprio per quella dimensione non più spaziale della nostra vita digitale. Ma c'è di peggio: esiste il rischio di avere una doppia vita, cioè come da motto cartesiano modificato che sostanzia questa esistenza parallela, costruita appositamente per dare una immagine di sé che corrisponde ad una realtà edulcorata a beneficio di chi guarda sui "social". Ad un esibizionismo digitale corrisponde, infatti, una sorta di voyeurismo on line: attori e spettatori che si scambiano spesso i ruoli. Certo, ci sono gli entusiasti degli aspetti buoni di queste nuove comunità immateriali. Ha scritto Jeremy Rifkin: «Oggi centinaia di milioni di persone sono attivamente impegnate in reti sociali collaborative su Internet, alle quali offrono il proprio tempo e le proprie conoscenze, di solito in modo gratuito, per promuovere il benessere di tutti. Perché lo fanno? Per la pura gioia di condividere la propria vita con gli altri, nella convinzione che contribuire al benessere dell'insieme non diminuisce in alcun modo la parte che loro spetta, ma, anzi, l'amplifica e la moltiplica. Gli spazi sociali di "Wikipedia" e di "Facebook", per esempio, costituiscono una sorta di sfida alle basi della teoria economica classica, secondo la quale l'uomo è una creatura egoista, continuamente tesa all'autonomia. L'energia e la comunicazione della Terza rivoluzione industriale fanno emergere una gamma del tutto diversa di pulsioni biologiche: il bisogno di socialità e la ricerca di condivisione». Insomma: vale tutto e anche il suo contrario. Ogni novità tecnologica ha agito in profondità e nulla si ferma nel nome di logiche conservatrici o di un luddismo senza speranze. Tuttavia ci vorrebbero misura e comprensione. Non è solo questione di norme che ripuliscano i "social" dall'odio e dalle stupidità e neppure di bon ton ed educazione sul Web. Come ogni cosa bisogna ampliare il buono e mettere regole contro gli eccessi, compreso il rischio di vite fittizie esibite - ed "Instagram" è ormai la punta dell'iceberg - nel raccontare storie inesistenti che mettono, alla fine, un'infinita tristezza. «Maschere», come direbbe Luigi Pirandello.