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15 nov 2018

La volgarità in politica in favor di "populace"

di Luciano Caveri

Quando si era ragazzi l'uso della parolaccia era una sorta di prova del fuoco per sdoganarsi verso l'età adulta. Per altro questo avveniva in rottura con i propri genitori, che ovviamente ci tenevano ad un linguaggio "pulito" dei propri figli. Crescendo ci si accorge di come "modus in rebus" sia del tutto vero e, se qualche parolaccia può scappare, specie ad uso comico o come imprecazione di fronte ad un imprevisto, un suo abuso diventa maleducato e ingiustificato. Eppure sembra che oggi l'uso di parolacce e di espressioni forti e persino offensive faccia parte dell'armamentario di certo populismo, quello che - usando un francesismo imparentato con questa parola - ammicca verso il "populace", cioè una parte di popolazione culturalmente bassa che apprezza il politico che si mette al suo stesso livello con un uso rozzo del linguaggio. Questo non vale solo più per l'oratoria da comizio, quando si arringa una folla, ma si trasferisce nell'uso dei "social", visto che oggi chi ha responsabilità di governo finisce per avere staff - roba da matti! - che non lavorano nell'alveo della comunicazione istituzionale, come sarebbe corretto fare, ma montano delle macchine per il consenso in cui usano toni aggressivi e spregiudicati perché questi "sfondano" e fanno parlare di te. Un meccanismo perverso da "Circo Barnum", che rischia di avvelenare i rapporti umani e sociali e non è dunque solo una questione di bon ton...

Fiorenza Sarzanini osserva su questo sul "Corriere della Sera": «Ormai sembra diventata una gara a chi usa il termine più greve, l'insulto più sgradevole, la provocazione più estrema. I ministri parlano in pubblico e lo fanno come fossero al bar, l'aggressività diventa tanto normale da essere inserita persino nei comunicati ufficiali che i loro portavoce trasmettono nelle chat aperte su "whatsapp". E così la volgarità viene utilizzata sempre più spesso, fino a diventare un tratto caratteristico di questa stagione politica. Quale fosse il modello di comunicazione si era capito ben presto ascoltando il ministro dell'Interno Matteo Salvini che l'estate scorsa, annunciando un decreto per intervenire in materia di immigrazione, aveva avvisato gli stranieri presenti in Italia che "la pacchia è finita". Da allora ha sempre duellato con chi osava contraddirlo. Il governo tunisino che non effettua controlli sulle coste e lascia partire i barchini verso Lampedusa "esporta galeotti", gli analisti che criticano la manovra economica sono "sciacalli" e al presidente della commissione europea Jean Claude Juncker che paragona l'Italia alla Grecia risponde: "Parlo solo con le persone sobrie"». Ovviamente certe prese di posizione che accendono il cuore dei tifosi lasciano l'Europa perplessa, perché non abituata a queste esagerazioni che rendono grottesca la politica. Aggiunge Sarzanini: «E' uno stile ed è fin troppo chiaro che anche i ministri "Cinque Stelle" abbiano deciso di accodarsi, forse convinti che questo paghi in termine di consenso. Con il trascorrere delle settimane i toni si sono alzati fino a diventare fragorosi. E allora il titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli definisce "ignorante" chi non apprezza il suo progetto per ricostruire il "ponte Morandi" di Genova con negozi e ristoranti, senza ammettere poi di aver sbagliato visto che la sua idea copiava quella del "ponte Galata" di Istanbul e forse lui non sa che quella è un'area pedonale e non un viadotto autostradale. Era maggio scorso quando Luigi Di Maio attaccava il capo dello Stato Sergio Mattarella chiedendo che fosse messo in stato di accusa perché non accettava come ministro dell'Economia Paolo Savona. Qualche settimana dopo ha ammesso l'errore, ma questo non è evidentemente bastato per convincere tutti ad abbassare i toni. Nemmeno lui. E così capita che nei suoi comunicati il ministro Salvini dica frequentemente "mi fa schifo" e parlando in "diretta Facebook" dal suo ufficio al Viminale arrivi a usare come intercalare la parola "cazzo", oppure a evocare spesso e volentieri il mussoliniano "me ne frego"». La pericolosità del linguaggio è del tutto avvertibile proprio pensando all'uso eccessivo e violento che ne hanno fatto le dittature, che fossero nazismo o fascismo o il comunismo sovietico o cinese. La demonizzazione del nemico è un a caratteristica perniciosa in Democrazia e il suo abuso crea una rincorsa che sembra destinata a non finire mai. Finisce la giornalista: «Succede che proprio Salvini e Di Maio si accusino reciprocamente di scorrettezze, salvo poi prendersela con chi "ci porta sfiga". In questo clima persino il sindaco di Milano Giuseppe Sala, sempre misurato, è stato costretto a scusarsi per aver invitato Di Maio (con un'espressione forte) "a chiudere i negozi ad Avellino e non a Milano". Lui una correzione l'ha fatta. Di Maio invece non solo non si è pentito di aver definito "infimi sciacalli" i giornalisti che hanno raccontato l'inchiesta sulla sindaca Virginia Raggi, ma poi ha avallato la posizione del compagno di partito Alessandro Di Battista che li reputa "puttane", specificando che "quando ce vo, ce vo, non si torna indietro". E il titolare della Giustizia Alfonso Bonafede - che appena una settimana fa ha definito "azzeccagarbugli" gli avvocati schierati contro le nuove norme sulla prescrizione - ha voluto allinearsi chiarendo che "non c'è alcuno scandalo ad usare questi termini". E' un problema di linguaggio, ma non solo. Perché si tratta di ministri e dunque in discussione c'è il ruolo che hanno, l'istituzione che rappresentano. Quando oltrepassano il confine e scadono nell'insulto, ad essere sviliti non sono i bersagli dell'epiteto, ma le funzioni che loro stessi ricoprono. Un esponente del governo non può comportarsi come un cittadino qualunque. La scrivania nella stanza di un dicastero non può essere utilizzata come il tavolino di un bar. Non è una questione di buone maniere, in gioco c'è la credibilità di chi governa questo Paese e dunque dell'Italia. Sarebbe bene tenerlo a mente. Almeno fino alla prossima parolaccia». Pensavo la stessa cosa, ascoltando le parole misurate, educate, aperte al confronto del Presidente Sergio Mattarella alla "Scuola per la Democrazia" di Aosta. Chi ha condannato al rogo tutto e tutti della famosa "casta" rifletta sui sostituti.