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07 ott 2018

Sostanza e linguaggio in Politica

di Luciano Caveri

Non so quanto sia diventato insano coltivare la mia vecchia passione per la Politica per il rischio di trovarsi, come mi capita, amareggiato e persino preoccupato per le situazioni intricate di cui spesso non vedo ancora soluzioni. Oltretutto ciò avviene in un contesto che talvolta mi indigna, specie quando vedo comportamenti litigiosi e persino sleali. Questo malessere capita sia che si tratti di questioni relativamente banali, più amministrative che politiche in senso proprio, diventate talvolta come montagne impervie da scalare, sia che si tratti dei grandi temi del futuro della democrazia - quelli sì ben più impegnativi - in Europa e in Italia, in una confusione che spesso fa temere il peggio.

Nella piccola Valle d'Aosta, nel precario equilibrio delle maggioranze, esito del voto di qualche mese fa, tutto ruota - anche in queste ore - attorno al numero "diciotto", che è il minimo che serve per raggiungere la maggioranza sui 35 seggi del Consiglio Valle. Ricordo come nella smorfia napoletana questo simbolo - si può scherzare? - viene rappresentato dal sangue, il fluido vitale, senza il quale la vita non potrebbe esserci. Viene in mente naturalmente il miracolo annuale del presunto sangue nell'ampolla di San Gennaro, che non ha per fortuna eguali nel nostro San Grato. Per chi crede nel valore esoterico dei numeri, il diciotto ha un significato mistico dalla civiltà maya a quella celtica e pure i romani davano un valore particolare al numero, che è usato anche nella Bibbia e nelle tradizioni, ebraica, buddista e islamica. Da noi, più prosaicamente, diventa il frutto di alleanze fatte con il misurino ed è il segno di un periodo di incertezza, esito dei meccanismi elettorali e della volontà popolare. Chi ha studiato il linguaggio della politica italiana ha segnalato più o meno tre periodi che sono stati contrassegnati come "Prima", "Seconda" e "Terza Repubblica". Ricordo che è una numerazione arbitraria non corrispondendo, come invece nel caso francese, dove siamo alla "Quinta Repubblica", ad un cambio importante della Costituzione. Comunque sia, nella "Prima Repubblica" i Governi si formavano e si disfavano per via del forte proporzionalismo e della grande litigiosità, oltreché per i veti per alcune possibili alleanze. Si usava per giustificare certi andirivieni e certe faide intestine il "politichese": un linguaggio esoterico tutto interno alla classe politica e che risultava oscuro ai semplici cittadini perplessi di fronte a formule come le «convergenze parallele» o gli «equilibri più avanzati». Ecco, come saggio, un pezzo di un discorso del democristiano Ciriaco De Mita, che al Parlamento europeo metteva in crisi gli interpreti per le circonlocuzioni: «Abbiamo ricercato da tempo la possibilità di un incontro. Se prima non c'è stato è perché qualcuno non si è detto disponibile. Se ci fosse la possibilità di incontrarci in presenza di un'iniziativa utile, la nostra disponibilità c'è. Se però questo rito serve soltanto a rendere ancora critica la spiegazione della crisi, credo che non sia una iniziativa da incoraggiare». Boh! Nella "Seconda Repubblica" questo tipo di linguaggio si attenua, poiché diventa in parte inutile: grazie a nuove regole elettorali e al bipolarismo, i leader e le rispettive coalizioni sono abbastanza predefiniti e dunque c'è un parlare più franco, persino spregiudicato e battutista, di cui è stato interprete - mediando anche dalla pubblicità - Silvio Berlusconi e pure Matteo Renzi segue la scia. Si insinua anche, pensiamo a Umberto Bossi, ed al suo «celodurismo», una parte più rozza nel lessico politico, che esplode ormai in questa "Terza Repubblica" che abbiamo sotto gli occhi, in cui - sulla base della spinta populista e dell'uso dell'immediatezza dei "social" - si sdogana la volgarità. Così, a fronte di nuove instabilità di maggioranza che obbligano a rotture delle alleanze fatte prima delle elezioni, arriva il peggio con toni non solo fatti di promesse irrealizzabili, ma di insulti e persino di turpiloquio verso il nemico. Si inventano in più i fantasmi dei «poteri forti» come bersaglio utile nel gioco antico "amico-nemico", che scaldano un elettorato spesso di basso profilo culturale. Sono gli stessi che amplificano "fake news" ed attacchi violenti che avvelenano i pozzi della civile convivenza. C'è quasi da rimpiangere il "politichese". Ho trovato un articolo scritto da Aldo Moro (inventore delle assurde «convergenze parallele») scritto nel marzo del 1978 poche prima di essere rapito e poi ucciso, quando si affacciava il "compromesso storico" tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, in cui diceva: «L'attenzione dei cittadini e dei commentatori si rivolge spesso alla classe politica con un giudizio, nel complesso, severo. Un'accusa frequente è quella di tergiversare, di eludere i problemi, di giocare con formule astruse ed ambigue. C'è una polemica anche sul linguaggio, la quale potrebbe essere una legittima curiosità letteraria, se non confluisse, essa pure, nell'accusa d'insincerità, con scarsa comprensione dei delicati rapporti che mediante una certa terminologia si vogliono descrivere. A generare gli stati d'animo, ai quali or ora facevo riferimento, e che coinvolgono anche acuti osservatori, contribuisce l'antica diffidenza verso coloro ai quali spetta l'iniziativa politica, una diffidenza che induce a considerarli capaci di volgere in una direzione sbagliata, e magari a profitto proprio e del proprio potere, le cose le quali, non deviate ed anzi saggiamente favorite, avrebbero un giusto corso ed uno sbocco positivo. L'immagine del politico manipolatore della realtà emerge di frequente nel dibattito. E non parlo poi, perché questo è l'aspetto più banale, della diffusa intolleranza verso il personale politico, del quale si contesta il titolo a dirigere, a contare e ad essere rispettato per una vocazione di servizio vissuta con nobiltà e sacrificio. Questa impazienza, questa scarsa fiducia, questo inquieto interrogarsi sulle ragioni dei nostri mali sono maggiori nel corso di crisi politiche che la complessità della situazione italiana tende a rendere più lunghe di quanto normalmente non accada (e tuttavia con rilevanti eccezioni) nel mondo occidentale». E' vero che il leader democristiano non era di facile lettura, ma la diagnosi finisce per avere un valore ora come allora e si sposa con la vecchia verità che gli eletti li scelgono gli elettori, che poi troppo spesso se ne dolgono "a babbo morto". Nel caso valdostano si mischiano "politichese" della "Prima Repubblica" per spiegare scelte diverse da quelle fatte in campagna elettorale (oggi tira molto «il bene comune» e «il senso di responsabilità» di chi "sposa" chi odiava sino a un'ora prima) ad uso di violenza verbale tipica dell'attuale temperie politica e trovo che sia significativo come scelte definite nelle "segrete stanze" della vecchia politica finiscano sul Web in tempo reale, persino con la fuga verso giornalisti amici del momento di documenti riservati. Insomma: un gran casino (non scrivo "Casinò", perché sarebbe una battutaccia) che sembra avvolgere il mondo della politica e non sempre esistono gli elementi che consentano ai cittadini di evitare di considerare - ingiustamente - tutti assieme in una sorta di "gruppo selvaggio".