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26 set 2018

Le case della mia vita

di Luciano Caveri

Spesso i pensieri sono alimentati dalla quotidianità e - partendo anche da un piccolo spunto - ci si allontana mano a mano sino a ritrovarsi distanti dal punto di partenza su di un terreno diverso dal semplice aspetto fattuale. «La vostra casa è il vostro corpo più grande. Essa cresce nel sole e dorme nella quiete della notte, e non è priva di sogni. Non sogna forse la vostra casa?». Così ha scritto Kahlil Gibran, dando quel senso di familiarità e di vita che le case possono o forse dovrebbero avere. Non che le case pensino o ci siano davvero fantasmi o spiriti che le animano, ma è vero che le case finiscono per avere una loro personalità, riflesso di noi stessi, di chi le ha costruite e abitate. Ci penso in queste ore, impegnato in un trasloco, lasciando la casa dove abito da qualche anno.

Ha scritto la giornalista Eleonora Barbieri e dovrebbe essere scritto sugli scatoloni impiegati per migrare da un luogo all'altro: «Non è solo il fare e disfare scatoloni. Ma c'è anche quello, eccome. E' uno stato fisico e mentale, è ciò che alcuni definirebbero un'esperienza "olistica": il trasloco riesce in effetti a devastare il corpo e l'anima, in perfetta e beffarda sintesi aristotelica. Altro che yoga. Lo stress sfiora livelli esasperati, l'equilibrio familiare si spinge ben oltre il rischio: la scritta "fragile" sulle scatole, è ovvio, non si riferisce al contenuto, ma al proprietario». Pensavo, come conseguenza di questo cimento, alle case della mia vita. Quella dove sono cresciuto è a Verrès: una villetta costruita all'inizio degli anni Cinquanta su di un progetto avveniristico di una coppia di architetti aostani, Saltarelli e Piccato. Lì - dove ora ci abita da sola la vecchia mamma - c'è un grumo di ricordi e di affetti che mi legano indissolubilmente a questa costruzione. In quegli anni, l'unica alternativa erano per me con stagionalità la casa al mare del nonno (una delle prime costruzioni in cemento armato di Imperia, zona sismica), sostituita poi da un appartamentino dove si viveva d'estate. D'estate capitava anche di dormire nella baita a Pila della zia Eugénie, la cui casa di famiglia in via Sant'Anselmo ad Aosta era teatro di ritrovi in occasioni particolari, come il Natale in casa. Da piccolo mi mandavano anche nell'appartamento dei nonni materni a Pont-Saint-Martin o - a due passi dalla mia - a casa della donna di servizio, Rosina, che mi accudiva come un principino. Poi ho avuto le "mie" case. Una nella collina di Saint-Vincent, costruita dove c'erano abitazioni agricole con vista dalla cima della Mongiovetta, una - più recente e che sto lasciando in queste ore - in un appartamento di una dimora storica costruita, ma ci sono andato ad abitare per caso, da un parente di origine gressonara della mia bisnonna paterna. Non ho alcuna competenza tecnica, tant'è che anche in questo caso non ho seguito i cantieri per manifesta incapacità se non per vaghissime nozioni di base (per cui mia moglie ha fatto la parte del leone: la ringrazio!), ma devo dire che sono affascinato da tutto quanto ruota attorno alle costruzioni. Non solo perché esiste un carico burocratico di autorizzazioni e scartoffie che lascia sempre stupito il non addetto ai lavori, ma anche perché dai primi disegni sino alle finiture è una sorta di Via crucis, le cui tappe sono indeterminate e sembra talvolta come la fatica di Sisifo, cioè non si vede mai la fine dei lavori. Ma guardare le case, pur essendo appunto ignorante, mi piace. Osservo con ammirazione il patrimonio tradizionale del mondo alpino, dove - lungo tutto l'arco della sua estensione - ci sono state soluzioni tecniche geniali per garantire la presenza umana, ma ogni volta che sono in un Paese - che siano vestigia del passato o modernissime soluzioni architettoniche - sbircio e imparo, perché nel concetto più vasto di civiltà la capacità costruttiva è un elemento cardine. Ma ora mi appresto a questa mia nuova "conoscenza", che significa, comunque sia, uno di quei cambiamenti che fanno nella vita da punto a capo.