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10 set 2018

Raffreddare gli animi, non incendiare le piazze

di Luciano Caveri

La premessa è la solita: la democrazia deve di questi tempi fare i conti con i "social", come strumento potente che crea un legame diretto fra Politica e cittadini ed è un capitolo nuovo di una storia antica nell'uso di mezzi di propaganda e di comunicazione di massa, che obbliga a ricordare come ci voglia molta misura per non attizzare gli animi e accendere scontri in un'Italia confusa e in transizione, che non può permettersi benzina sul fuoco. E' auspicabile che nei giorni a venire si abbassino i toni derivanti dall'errore - perché di questo si tratta - di Matteo Salvini di adoperarsi in una continua campagna elettorale, specie come in questo caso rispetto alle vicende giudiziarie che lo riguardano personalmente nel suo ruolo di ministro dell'Interno e che riguardano la Lega per la conferma di un sequestro preventivo legato alle note vicende dell'uso, in passato, dei finanziamenti pubblici al partito. Ieri, in diretta dal suo ufficio al Viminale il leader leghista, conscio di sondaggi che prevedono una Lega come primo partito in Italia, perse le primigenie caratteristiche di partito territorio della cosiddetta "Padania", ha aperto e commentato in diretta "Facebook" l'avviso di garanzia della Procura di Palermo nell'ambito delle indagini sul blocco dei migranti sulla nave "Diciotti".

«Non mi ritengo né un sequestratore né un eversore» ha detto, prendendosela poi coi magistrati «che si proclamano di sinistra e in base a questa loro cultura emettono sentenze». Ha in seguito aggiunto: «Qui c'è la certificazione che un organo dello Stato indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato, pieno di difetti e di limiti, per carità, è stato eletto, altri non sono eletti da nessuno». Ha poi concluso «per me è una medaglia», aggiungendo come affondo finale «Grazie ai magistrati, grazie al procuratore di Genova, grazie a tutti: mi date solo più forza». Genova si sta occupando delle vicende finanziarie del "Carroccio" di cui dicevo all'inizio. Immagino che questa escalation derivi da molte ragioni di tattica politica nei rapporti con i pentastellati che hanno radici - pensiamo al "Fatto Quotidiano" di Marco Travaglio - che lo hanno avvicinato al mondo giudiziario come espressione di certa foga di giustizialismo ma anche di un Quirinale preoccupato da certo protagonismo politico che cavalca modi e contenuti populisti specie in chiave anti-europea. Scrive Mattia Feltri su "La Stampa", dopo avere evocato Silvio Berlusconi e la sua battaglia contro la Magistratura degli anni passati, della reazione di Salvini su "Facebook": "Vogliono metterci il bastone fra le ruote, ha detto. E poi: qualcuno non si rassegna al fatto che Salvini sia al governo (mai un bel segno quando uno parla di sé in terza persona), questo è un processo politico, come in Turchia, sono tranquillo, gli italiani sono con me, qualcuno si oppone alla voglia di cambiamento del popolo. E poi il piccolo capolavoro retorico: voi siete miei complici, perché la differenza fra me e loro (i magistrati) è che io sono stato eletto da voi, loro non sono stati eletti da nessuno e non rispondono a nessuno. La sostanza della sfida è che lui, Salvini, ha sottratto a Casaleggio la teoria parafilosofica della democrazia diretta e ne ha fatto una pratica, aprendo le notifiche giudiziarie in video su "Facebook", con centinaia di migliaia di tifosi a intonare cori da tastiera. E' che lui ha con sé la forza popolare, e la forza popolare è più forte delle regole dello Stato liberale di diritto, sesquipedale sciocchezza spiegata nei manuali di educazione civica per le medie (una volta, ora educazione civica non si studia più). Così Salvini si gioca la suggestione sediziosa, e con un vantaggio: Berlusconi ha avuto contro una magistratura forte, idolatrata, che si portava appresso la fama da Zorro degli anni di "Mani pulite", quando erano i pm a legittimarsi con la ola da curva. «Il grande processo pubblico è già avvenuto, è già lì, è in gran parte già fatto», diceva venticinque anni fa il capo della procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Eccolo il sentimento della piazza, trascinato di qui e di là, molto sopra le regole. Ecco la nemesi. Adesso però quella piazza esultante per la promessa di salvezza della magistratura sembra esultare per la promessa di salvezza del sire nazionalista. Il vento ha cambiato direzione. E non è una buona notizia, nemmeno per chi in questi decenni s'è ribellato al feticcio catartico degli avvisi di garanzia. In un Paese in cui il potere legislativo (Parlamento) è evaporato, non fa più le leggi, nemmeno discute e modifica quelle del governo, persino scomparso dal dibattito politico, ecco, un Paese così può permettersi anche un potere giudiziario che rischia di finire all'angolo, e non per le sue molte manchevolezze, ma perché così ha deciso il popolo nella palpitazione del giorno? Possiamo permetterci un potere esecutivo che prova a salire allo strapotere?". Già, sono questi gli interrogativi e per questo bisogna sperare che non si vada oltre. Di tutto abbiamo bisogno ma non del cortocircuito di una piazza che protesta sotto il comando del Ministro dell'Interno.