Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
17 lug 2018

Il tiglio dei Walser

di Luciano Caveri

Ogni volta che visito una comunità walser mi stupisco sempre per quel cumulo di storia originale che rappresentano. Sono tornato dopo tanti anni a Macugnaga, nell'Alta Anzasca, a 1.300 metri sotto la parete Est del Monte Rosa per un convegno sulla montagna in ricordo del mio amico e amico dei walser Luigi Zanzi, stregato dai luoghi di cui divenne animatore e studioso. Per capire la magia dei luoghi basta visitare Dorf, piccolo nucleo abitativo del 1200, con la chiesa dell'epoca, il cimitero dove riposano le famiglie locali e gli alpinisti morti in montagna e l'antico tiglio secolare (di cui dirò tra poco grazie ad un bellissimo articolo) per respirare l'aria di quella grande conquista di questa e altre alte vallate confinanti sempre del Rosa (non c'entra il colore ma il termine "ghiacciaio" in patois).

Un anno fa Paola Manfredi ne scrisse su "Vanity Fair", cogliendo lo spunto dell'annuale festa dedicata a San Bernardo di Aosta, ulteriore legame con la nostra Valle. Scrive la Manfredi: «Il primo giorno che ho sentito parlare di Walser ero in un posteggio appena dietro l'Università di Pavia. Il mio professore, Luigi Zanzi, ormai stremato dalla mia indecisione sul tema della mia tesi di laurea in "Metodologia della Storia", mi propose uno studio sul campo nell'ambito della religiosità del popolo Walser. Non capii di cosa stesse parlando, ma almeno non avevo pensato al ballo (cosa che ho poi notato succede spesso) e non perché il ballo non possa avere risvolti "religiosi". Non avevo comunque idea di chi fossero i Walser, dissi al professore che era un tema interessante, tornai in Università e presi un libro in biblioteca». Poi una spiegazione sintetica e illuminante: «Chi erano questi Walser? Chi sono? In primo luogo sono un grande viaggio: genti che nel Medioevo seguirono la grande spinta migratoria dall'Europa centrale lungo la valle del Reno verso l'attuale Vallese e quindi verso le nostre terre. Potremmo pensarli come migranti, tanto per essere più attuali (anche se in un contesto decisamente diverso). In pratica i Walser attorno al 1200, forse pressati da altri flussi migratori, raccolsero le proprie cose e andarono a cercare fortuna a sud. Cosa cercavano? La sicurezza, terre per allevare e coltivare, la libertà. I Walser trovarono le basi per una nuova vita in alta montagna, terre che allora erano dimenticate dall'uomo e abitate dal diavolo: era la montagna del Medioevo, per niente idilliaca, di certo pericolosa e ostile. Ma il fatto è che i Walser erano gente tosta: fondarono le loro comunità ad anello attorno al Monte Rosa, lassù nelle terre libere, dove non c'erano vassallaggi o briganti, e dove poter rifare tutto come sapevano fare. Una vita - per inciso - durissima». Poi il racconto dell'avventura cultuale nel solco della tesi indicata da Zanzi: «Accettai la proposta di tesi e iniziai il recupero sulla mia ignoranza, provando a conoscere tutto quello che sapeva il mio professore sui Walser, ma era un'impresa impossibile: lui, a Macugnaga, era stato l'animatore della rinascita Walser, della riappropriazione della loro antica cultura, in parte persa, ma che ancora permeava ogni aspetto della loro vita: le case pietra e legno a Blockbau (ad incastro, senza chiodi), le stübe simili a quelle che vedete in Alto Adige, la stanza centrale della casa con un'unica stufa "in condivisione" con la cucina, gli abiti, di chiara discendenza germanica, con il corpetto nero ricamato di fiori dorati, la lingua (il titsch), un dialetto tedesco del sud che si è mantenuto grazie all'isolamento in montagna (e che i tedeschi venivano ad ascoltare per "tornare indietro nel tempo"), le abitudini, le credenze... Il professore sapeva già tutto e già aveva pubblicato alcuni libri (solo un piccolo tassello nella sua produzione letteraria e scientifica che abbraccia i soggetti più diversi, segno del suo profondo animo umanista), che erano diventati il fulcro di qualsiasi studio sui Walser (ad esempio: "I Walser nella storia delle Alpi", ma anche "Civiltà Alpina ed evoluzione umana")». Ma ecco per concludere la citazione che riguarda il tiglio, pianta storica di cui dicevo all'inizio con vicende profonde come le sue radici, che non conoscevo affatto: «Prima ancora di parlare della mia tesi, il Professor Zanzi mi aveva spedita "a sgranchir le gambe" in una "ricerca per l'antico tiglio". Proprio a Macugnaga, davanti alla Chiesa vecchia della frazione di Staffa, una delle nove che formano il paese, ancora oggi potete vedere un albero antichissimo: scavato dalle intemperie, muschioso, contorto e appoggiato a un palo come un vecchio, ma ancora con la voglia di rinascere ogni primavera. Per le antiche comunità di origine germanica il tiglio è un albero sacro: per questo la leggenda vuole che sia stato portato in viaggio e piantato là dove sarebbe nato il nuovo insediamento.Ma quello che fa ombra ora alla chiesa è il tiglio originario? Tentai di andare ad appurarlo nell'archivio di Verbania, cercando tra gli atti notarili. L'albero non era solo un albero, era il posto sacro: sotto i suoi rami oggi vedete quella che potrebbe sembrarvi una "panchina" in pietra, dove avrete voglia di sedervi appena arrivati per guardare la bellezza della chiesa e del suo piccolo cimitero, che accoglie non solo i paesani ma anche gli alpinisti. Ma quella non è una panchina, era il tavolo dove gli anziani del villaggio si riunivano a prendere le decisioni importanti per la comunità. Era anche il posto dei morti, dove si posava il corpo di un defunto per farlo benedire. Ed era lì, sotto quello stesso albero, in guisa di antico testimone, affidabile, sacrale, che si stringevano patti e si firmavano contratti. A Verbania passai delle lunghe e calde giornate a sfogliare antichi documenti. Ne trovai uno dell'Ottocento che citava il tiglio, ma non serviva di certo quel documento per capire che quel vecchio albero aveva più di duecento anni. Poi, quando avevo perso le speranze, trovai un atto notarile più antico: lo lessi almeno venti volte. Non ricordo ora quale fosse l'atto, una compravendita forse, e non trovo la mia tesi a casa, ma era del Quattrocento, vergato "sotto il vecchio tiglio", che dunque appariva già "vecchio" allora. Sappiatelo, il tiglio che vedrete, ha visto la storia». Una storia avvincente che dimostra come ricostruire certe vicende delle Alpi - solo apparentemente minori - sia talvolta come impegnarsi in una caccia al tesoro, seguendo il filo delle proprie intuizioni e delle geniali ispirazioni di professori colti e intelligenti, com'è stato Luigi Zanzi, mio amico.