Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
02 lug 2018

"Il faut cultiver notre jardin"

di Luciano Caveri

«Il faut cultiver notre jardin», scrive Voltaire in "Candide". Ricordo come nasce questa sua frase: sospettoso di utopie e di sistemi metafisici (se la prende con Leibniz e il suo ottimismo), il filosofo francese vi contrappone il realismo e la concretezza per ottenere - mica male nella nostra breve vita spesso tribolata - gioia e benessere. Non bisogna tuttavia, nel filo dei suoi pensieri, dipingere di rosa il mondo che ci attornia, perché il male nelle sue molte vesti esiste e lo constatiamo con tristezza in troppe occasioni. Questo elogio della normalità contro un mondo perfetto inesistente nel suo meccanicismo è una chiave di lettura che mi ha sempre convinto. In verità nello stesso libro ci sono altri "jardin" che, ad esempio, rappresentano la cultura come elemento essenziale cui abbeverarsi e si quanto questo suo messaggio sia stato disatteso.

Con il tempo, anche se penso di averlo sempre fatto, questa questione di un proprio giardino, fatto anche delle piccole cose che possono illuminare la nostra quotidianità, mi piace molto e ne sento il bisogno perché l'intimità degli affetti più cari ci corrobora. Ma non vorrei mai che fosse un "hortus conclusus", cioè un orto recintato, come dimensione esclusivamente privata e ristretta della propria vita. Perché altrimenti si perde l'aspetto di impegno civile, che è uno degli elementi importanti senza il quale saremmo estranei alla società. Viviamo di certo strani tempi, che un giorno capiremo meglio: sappiamo bene per esperienza comune quanto sia difficile capire la piega che prendono gli eventi quando si vivono in diretta e si cercano di cogliere gli scenari possibili conseguenti. È complesso capire nella vita quotidiana, figurarsi quando si ha a che fare con la Storia. E' infatti facile scriverla ex post, molto diverso è comprenderne gli esiti sul momento per le troppe variabili dei meccanismi fra causa e effetto. Penso all'Europa che oggi pencola nel vuoto e potrebbe frantumarmi come un vaso prezioso. Immagino già lo svolgimento di simili eventi e mi figuro in quanti, che oggi spingono sul l'acceleratore, piangerebbero lacrime di coccodrillo di fronte alle conseguenze gravissime di un ritorno al passato, fatto di divisioni e, tanto per dire, di guerre infinite. Perché poi a scherzare con il fuoco gli incendi divampano davvero. Vorrei su questo punto essere chiaro. Non è che l'Unione europea sia il non plus ultra, anzi. L'Unione europea ha esattamente la mia età e dunque ci ho vissuto sin dalla nascita e l'ho conosciuta in alcuni gangli vitali che mi hanno consentito di praticarla dal di dentro e non solo sulla carta degli studi. Come qualunque costruzione umana l'Unione europea ha i suoi difetti e denunciarli è un bene. Esiste un deficit di democrazia, una certa invadenza centralistica, scarso appeal verso i cittadini, regole spesso non armonizzabili con esigenze specifiche dei territori e potrei continuare con altre mancanze, come - perché spicca - la macroscopica omissione sulla libertà della Catalogna. Ma quale sarebbe l'alternativa per un Continente come il nostro? Andare ognuno per conto proprio e guardarsi in cagnesco? Chiuderci nei nostri confini in un mondo globalizzato e dare fiato ai vecchi e scricchiolanti Stati nazionali? Sono federalista fino al midollo per cultura e per convinzione e questo serve a chiarire un possibile equivoco, che parte da un termine antico ma assai cangiante nei flussi del tempo: "nazionalista". Termine nobile e orribile a secondo dell'uso e dell'abuso che ne è stato fatto, specie da fascismo e nazismo. Tanto che i partiti valdostani, in primis nel 1945 l'allora unificante Union Valdôtaine nata dalle ceneri di quegli anni drammatici di un nazionalismo violento e assassino, hanno sempre usato il generico "autonomista", che è diventato il prezzemolo per ogni uso in una gamma di utilizzazioni come una coperta tirata da ogni parte e oggettivamente utile a diversi scopi. In verità altri partiti territoriali hanno inalberato il termine "nazionalista", che oggi può essere a sdoganato a condizione, nel caso valdostano, che sia affiancato dal vaccino antigiacobino del "federalismo". Altrimenti si casca male e ci si trova in una logica ben diversa, in cui il nazionalismo è un pozzo scuro fatto di pensieri di supremazia, di odio per gli altri, di chiusura e di sospetto. Mentre il nazionalista "buono" è un pacifico cittadino del mondo e soprattutto vuole - nel caso in esame - conciliare la propria appartenenza con una cittadinanza europea che superi egoismo e incomprensioni. Altrimenti in una spirale tutto si trasforma in competizione e la competizione in lotta e la lotta in scontro e, alla fine, scorre il sangue e ci si divide, diventando tutti più deboli. Sarebbe bene rifletterci prima di esacerbare gli animi e alimentare la macchina della distruzione. Anche l'Europa è un nostro "jardin".