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15 feb 2018

Un libro "scomodo" sull'immigrazione

di Luciano Caveri

Il tema dell'immigrazione è diventato uno degli argomenti caldi della campagna elettorale delle prossime elezioni politiche. A parte chi tace sull'argomento perché considerato troppo spinoso e si limita di conseguenza ad una genericità rassicurante ad ampio spettro, è indubbio come sul tema esistano opposti estremismi: chi usa toni sempre più truculenti con l'avvicinarsi dell'appuntamento del 4 marzo e chi, invece, agita le bandiere dell'accoglienza e della comprensione spinte al massimo. Verrebbe da dire che la posizione, citando il poeta Iacopo Badoer, del «Un bel tacer non fu masi scritto» non mi appartiene: credo che si debba analizzare il problema con coraggio e senza cavalcare tigri da una parte o dall'altra. Sono reduce dalla lettura di un libro molto difficile, quelli che si affrontano con in mano un evidenziatore e con la necessità di tornarci sopra per certi passaggi ardui.

Eppure questo "Politicamente corretto", sottotitolo già chiaro con il suo "Il conformismo morale come regime", di Jonathan Friedman (edizioni "Meltemi") rompe le gabbie in cui si rischia di finire imprigionati. Questo Friedman è un antropologo americano, che ha insegnato in California e a Parigi, ma soprattutto in Svezia, di cui è diventato cittadino, inseguendo il sogno di quel socialismo svedese e del modello scandinavo ormai scricchiolante dello Stato sociale onnipresente e rassicurante. Ma a un certo punto, proprio sul tema integrazione, è avvenuto qualcosa che lo ha toccato di persona, persino mettendo a repentaglio la sua carriera accademica e la sua credibilità di studioso. La moglie, Kajsa Ekholm, anch'essa antropologa, viene attaccata duramente dopo una sua conferenza a Stoccolma nel 1997, accusata di essere razzista e persino fascista per avere denunciato in maniera schietta il fallimento delle politiche di immigrazione in Svezia, specie rispetto alla visione ottimistica ufficiale di un Paese in cui la politica multiculturalista era diventata un caposaldo. Così per Friedman si è aperto uno spazio di approfondimento che offre uno spaccato interessante dei limiti del "politicamente corretto" (dall'inglese "politically correct"), quando si spinge verso l'intolleranza ed un uso manicheo delle discussioni. Non a caso viene citata dall'autore quella commedia di Ionesco, "Rinoceronti", scritta nel 1960, che racconta di una piccola comunità in cui le persone si trasformano piano piano nel pachiderma del titolo: è una denuncia critica contro ogni forma di opportunismo, di doppiogiochismo, di standardizzazione, di radicalismo ideologico e di fanatismo. Tema importante e sempreverde, che si incrocia tra l'altro nel libro con l'evidente crisi - interessante per chi come me crede nel federalismo - dello Stato-Nazione. Ma l'aspetto sostanziale è la denuncia della fragilità del luogo comune che diventa patrimonio acritico, che categorizza il mondo - senza avere più un'arena razionale e critica - in "buoni" e "cattivi". L'antropologo scrive cose che stridono e infastidiscono. Citando la Svezia squilla una denuncia: «In una società con elevata disoccupazione e mobilità verso il basso l'integrazione è stata un fallimento e anche quando, per un breve periodo, l'economia ha ripreso a crescere, la segregazione ha continuato a peggiorare. (…) Chiunque considerasse la situazione reale, l'aumento dei conflitti, la segregazione, la criminalità su base etnica e altri fenomeni simili, era immediatamente bollato come nemico della società, cioè dello Stato e delle sue élite». Ciò significa, secondo l'autore, il «rischio che le forme di politicamente corretto diventino un mezzo per la soppressione del dibattito» attraverso codici morali che diventano opinioni comuni. Chi non si adegua è soggetto alla vergogna che «si basa sulla presunta esistenza di alcune auto-evidenti verità morali sul mondo, il che implica che il trasgressore, a seconda delle sue caratteristiche, sia un oggetto di scherno o di paura». Per cui si sfugge al confronto su temi reali, anzi ci si offende e diventa un fatto personale che, dice Friedman, «induce il sospetto che la controparte sia mossa da motivazioni malvagie». Apro una mia parentesi: è indubbio che sull'immigrazione ci siano tesi malvagie e politicamente e moralmente insostenibili, ma concordo sul fatto che a fronte dei problemi ci sia la tendenza a chiudersi in trincee rispettive in assenza di zone di vero dialogo sui problemi reali. Torniamo al libro. Quel che denuncia l'autore è in sostanza di come il multiculturalismo sia diventato essenza nel sentirsi progressisti in una logica paradossale anti-Occidentale, come se noi stessi - espressione di queste culture - ci dovessimo vergognare nel nome di un'identità mondialista indeterminata. Friedman è molto ruvido quando dice: «Il rifugiato è diventato il nuovo eroe». Rispetto alla sua Svezia si preoccupa in sostanza della mancata integrazione di quelle che chiama "enclaves etniche" e scrive: «L'osservazione che alcune di queste enclaves possano anche includere diaspore legate al commercio illegale di armi, persone e droga è tabù. Si tratta di razzismo ed è il prodotto di razzisti. Suggerire, inoltre, che se vogliamo essere veramente globali nella nostra politica dovremmo almeno considerare la necessità di creare un ordine internazionale che permetta alle persone di restare a casa propria, sarebbe stato, ed è stato, percepito con estremo orrore». Fino ad un dichiarazione choc: «Le convinzioni razziste arrivano così ad includere "gli atteggiamenti positivi nei confronti della propria identità culturale"». Con questa logica, naturalmente, diventa razzista anche chi predica elementari azioni di integrazione. Per un valdostano autonomista un evidente campanello d'allarme ed è ovvia la richiesta di confronto serio su temi cruciali, perché altrimenti al cervello si sostituisce la pancia. Ma mi fermo qui: i libri vanno letti e meditati, qualunque tesi affrontino. In Italia oggi vige il conformismo da scontro ideologico!