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19 feb 2018

La scuola della Montagna

di Luciano Caveri

Mi sveglio presto e non è una croce, perché raramente faccio tardi. Al mattino, ancora sul telefonino, finché non avrò bisogno di occhiali per leggere piccoli caratteri, leggo i giornali fra quotidiani nazionali, quelli di zona alpina e pubblicazioni francesi e svizzeri. Trovo sia una ginnastica mentale profittevole. Capita ogni tanto di trovare uno spunto per qualche pista che mi porta a scoprire qualcosa delle tante che non sapevo. Per fortuna ciò capita ed è uno stimolo, sapendo appunto quanto non si finisca mai di sapere abbastanza e si insegue questa conoscenza come avveniva da bambino, nell'inseguimento con il retino delle farfalle nei prati di montagna. Trovo così, domenica scorsa, un articolo interessante sul "Corriere della Sera" dello scrittore Paolo Morelli proprio sulla montagna.

Traggo qualche frase che mi sono appuntato. Tipo: «Che la montagna sia una scuola s'è sempre detto ma forse è tra le cose dimenticate. L'Università delle Terre Alte la si potrebbe chiamare, ci si possono imparare cose importantissime quali il senso del limite, lo spirito di sacrificio, la resistenza o che le le scorciatoie non convengono mai». O ancora: «Ma soprattutto in montagna, parlo di un rapporto intenso non certo della sciatteria "ideologica" dei turisti, si può reimparare a vedere (il musicologo e montagnard Massimo Mila definiva l'andare in montagna una "scienza millimetrica del terreno"), può accadere insomma di riaprire il noto, il risaputo, o quello che non funziona più. In montagna, o forse in tutti i luoghi in cui non ci si può nascondere dalle leggi ferree della necessità, si può sperimentare una speciale qualità di attenzione, ma per farlo bisogna evidentemente cominciare dal basso». Così ho deciso di vedere - anche per un cenno proprio nell'articolo - cos'ha scritto ed il miracolo tecnologico è che mi sono scaricato sul mio lettore di libri elettronici un suo volume del 2003 di "narrativa nottetempo", che mi ero perso e che conferma che Morelli di montagna deve scrivere. Si tratta di "Vademecum per perdersi in montagna", nel quale una logica enciclopedica, quindi con l'ordine alfabetico, figurano gli "attrezzi" di chi va in montagna ed i "compagni" che si incontrano. Il tono è lieve, ma lo sforzo inventivo e di sistema, non dev'essere stato semplice e per questo l'autore va lodato e anche letto, che è poi il miglior complimento perché chi scrive non lo fa, beninteso, solo a proprio uso... Metto, a dimostrazione due voci per ciascun capitolo. Primo: «Itinerario: è necessario prepararlo per tempo, nei mesi e nei giorni che precedono la scalata, puntigliosamente rivederlo sulla carta e nella fantasia, fino alla notte prima della partenza. La mattina, dopo una notte insonne, alla prima difficoltà vi accorgerete che è meglio cambiarlo, e potrete sentirvi fieri della vostra duttilità mentale. Al pomeriggio, quando vi sarete persi, ormai ragionerete sulla vanità delle cose del mondo e la parola itinerario vi sembrerà solo un'eco di forra». Secondo: «Ramponi: sostituiscono le unghie degli animali, i quali però dopo due o tre tentativi falliti di arrampicata smetteranno di ostinarsi, mentre gli uomini no, non mollano, perché hanno le piccozze e i ramponi, e chissà cos'altro che li porta a fare le cose che non vengono comode, o almeno almeno di plausibile difficoltà». Primo: «Formiche: per incontrarle sul serio bisogna mettersi carponi e ridursi alle loro dimensioni. La prima cosa che si vede allora è che pure fra gli animali vi sono dei geni. Genio è il nume tutelare, benevolo o demoniaco, che presiede a un luogo del quale protegge o infetta l'intelletto, rendendolo diverso dagli altri. Ogni formicaio è un genio in azione. Singolarmente le formiche esistono solo a uno sguardo affrettato. Le formiche sono esemplari senza esempio, imitazioni senza originale, conviene prendersi tutto il tempo che ci vuole per osservarle. Non solo la prolungata osservazione vi farà perdere tempo, ma pure vi farà dubitare di essere un centro, fino a dimenticare perfino la sua possibilità. Vi basterà seguire gli avvenimenti di superficie, perché lì sta l'importante. Intenzioni, risoluzioni, obiettivi, si svolgono alla superficie, in grotta ci si va solo il tempo necessario per accatastare il cibo bottinato. Tutte in movimento, ognuna sa cosa fare. Gli impulsi circolano liberamente per il bene comune, i modi di essere relativi cambiano per la posizione dell'altra nei loro riguardi. Chi ha funzione di comando è asservito al senso comune. Ecco a voi un cervello come dovrebbe funzionare, in cui i lobi temporali sono ridotti alla ragione e non si permettono di prevaricare. Una volta tornati alle dimensioni normali resterà l'esperienza rigenerante di cui non serberete che un ricordo così». Secondo: «Rocce: dopo un po' le rocce prendono forme riconoscibili e classificabili come incontri. Forme di cose note, concrete, nominate e soprannominate. Baccello indio catetere trippa ettore. Mogli addolorate, astronavi, elefanti, guerrieri. Ce n'è per tutti i gusti, una serie di figurine pressoché infinita. Dopo un po' gli stessi angoli, certe sporgenze, certi sassi hanno la loro fisionomia caratteristica e familiare, che si rifiutano il più delle volte di abbandonare. Il bello è che gli altri incontrano rocce diverse, e allora dare per indicazione una roccia a forma di salame può essere utile ad allontanare i dubbi su quello che volete dire. Alle volte prendono la forma di dèi o dee e vengono pregate per ritrovare la strada».