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12 feb 2018

La Polonia ed i campi di sterminio

di Luciano Caveri

Ho avuto una stagiaire polacca quando ero al Parlamento europeo, che lavorava nell'ufficio che avevo a Strasburgo. Marta, come molte persone che vengono dai Paesi del Centro Europa (ai polacchi parlare di Est Europa non piace), è poliglotta e si esprime perfettamente nel suo italiano, spesso con espressioni assai buffe. Oggi è a Bruxelles in Commissione, dopo aver fatto fa lobbista, che non è una parolaccia nel mondo comunitario, ma un modo regolamentato per presentare le ragioni di gruppi di interesse. Ricordo con divertimento quando si occupava della tutela della particolarità della vodka polacca, che devo dire spicca per la sua bontà e dunque era giusto salvaguardarla nella normativa europea...

Andammo assieme in Polonia, anche in vista al campo di "Auschwitz" (in polacco "Oświęcm"), e spesso ho parlato con lei di come questo campo di sterminio, costruito durante l'occupazione nazista, venisse vissuto dai polacchi, ricordando che furono condotti al campo di "Auschwitz" 140mila - 150mila polacchi dal 1940 al 1945, e che 70mila - 75mila morirono vittime di esecuzioni, di crudeli esperimenti medici o di fame e stenti. Circa 100mila polacchi furono deportati a "Majdanek", e decine di migliaia vi morirono. Ventimila polacchi morirono a "Sachsenhausen", ventimila a "Groß-Rosen", trentamila a "Mauthausen", 17mila a "Neuengamme", diecimila a "Dachau", e 17mila a "Ravensbrück". Inoltre, altre decine di migliaia furono messe a morte o morirono in altri campi e prigioni. Mio padre che fu ad Auschwitz, lavorando all'esterno del campo, e poi in un campo di lavoro a Cracovia a spaccar pietre, ricordava la grande umanità dei polacchi, che riuscivano a passargli qualcosa da mangiare, quando era ridotto pelle ed ossa e ricordava l'infinita tristezza di una polacco che gli era diventato amico e gli diceva: «Passeremo dalla dittatura tedesca all'occupazione sovietica». Fu buon profeta, pensando che cosa avvenne nei Paesi oltrecortina dopo la guerra. Ma la Storia ritorna sempre e lo raccontava ieri Giovanni Sabatucci su "La Stampa": «La memoria storica di un popolo è di per sé un'entità impalpabile e difficile da maneggiare, fatta com'è della somma di infinite memorie individuali non sempre riducibili a un'unica sintesi. Diventa materia pesante e scivolosa quando il potere politico pretende di ricostruirla ex novo, di depurarla d'autorità dalle pagine oscure o addirittura di imporne una versione ufficiale. E' quanto purtroppo rischia di accadere, anzi sta già accadendo, nella Polonia di oggi: dove il Senato ha approvato a larga maggioranza una legge che, se definitivamente approvata, vieterebbe a chiunque, pena la reclusione fino a tre anni, di stabilire qualsiasi collegamento tra la nazione polacca e la tragedia della Shoah che si consumò, in parte rilevante, nel suo attuale territorio». Questa legge odora di malsano e lo raccontava ieri su "La Repubblica" un intellettuale polacco, in Italia ormai dal 1968, Wlodek Goldkorn: «Era l'anno 1967, quando le allora autorità comuniste polacche scoprirono un fenomeno nuovo: lo chiamarono "antipolonismo". Il significato di quella scoperta era semplice nonostante la retorica fosse un po' contorta. L'antipolonismo era l'espressione e parte di un presunto complotto, tutto ebraico, ma con la partecipazione delle potenze ostili, ai danni della nazione polacca. La legge, appena approvata dal Parlamento di Varsavia, e che prevede condanne penali per chi facesse uso dell'espressione "campi polacchi", in riferimento ai lager nazisti, trae le sue origini dalla campagna antisemita, perché di questo si trattava, che ebbe inizio cinquantun anni fa in concomitanza con la "Guerra dei sei giorni" tra Israele e i suoi vicini arabi, e che culminò nel 1968 con l'espulsione dal Paese di quasi tutti gli ebrei rimasti fino ad allora. Così mentre sui giornali di regime si moltiplicavano le storie e le analisi sull'alleanza presunta e immaginaria tra Israele, i sionisti e i "neonazisti tedeschi con lo scopo di privare la Polonia dei suoi territori occidentali", delle città ex tedesche come Stettino e Breslavia, e mentre venivano propinate narrazioni su come i poliziotti ebrei collaborassero con l'occupante nazista nei ghetti, affiorò anche la storia dell'antipolonismo, appunto. In parole povere: c'erano in giro ebrei influenti al servizio dei nemici di Varsavia che accusavano i polacchi di antisemitismo e di aver consegnato i loro concittadini, ebrei appunto, nelle mani dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. La propaganda di cinquant'anni fa esigeva invece che si raccontassero solo storie di polacchi che avevano aiutato gli ebrei. Per la verità, c'erano stati molti eroi che avevano sacrificato o avevano rischiato la vita per salvare gli ebrei, e basta una visita a Yad Vashem a Gerusalemme, per accorgersi quanto numerosi siano stati i polacchi "Giusti tra le nazioni"». La spiegazione entra nel cuore del problema più avanti: «Oggi il punto è questo: il governo e il Parlamento polacco, dominati da Jaroslaw Kaczynski, presidente del "Pis - Diritto e Giustizia", sin dal loro insediamento al potere avevano detto che avrebbero promosso "una politica storica". Politica storica significa l'esaltazione delle virtù nazionali ma anche un tentativo di controllo della narrazione della storia da parte della politica. Ora, la questione dell'antisemitismo in Polonia non è marginale (per usare un equivoco). Va dato atto a Kaczynski di non essere personalmente antisemita e di non aver mai usato esplicitamente una retorica ostile agli ebrei così come non è antisemita il presidente della Repubblica Andrzej Duda. Ma il fatto è che da quando il Paese ha conquistato la libertà il principale tema della discussione pubblica sono i crimini perpetrati dai polacchi ai danni degli ebrei sotto l'occupazione nazista: dai pogrom finiti con gente bruciata viva, alla prassi di denunciare i concittadini fuggiti dai ghetti. Era ed è una discussione che portava e porta alla messa in questione dell'identità polacca, intesa come appartenenza alla nazione cattolica, etnicamente omogenea, generosa con le minoranze (ebrei) e vittima dei vicini (russi e tedeschi). In questi mesi il potere polacco attraverso la televisione di Stato e i giornali amici sta scatenando una campagna di odio nei confronti dell'Europa, della Germania, dei traditori interni al servizio di Berlino. E in questo contesto si inserisce la legge sui campi di sterminio per chi conosce le regole (non tanto) segrete della retorica polacca è ovvio che si tratta di un provvedimento in fin dei conti xenofobo e che si richiama all'immaginario antisemita. Lo ha capito perfino Benjamin Netanyahu, di solito amico delle destre centroeuropee. Che poi, i campi di sterminio fossero tedeschi in terra polacca e non polacchi è un'altra storia». Tutto chiaro e purtroppo triste e torno a Sabbatucci e alla sua intelligente conclusione: «Qualcuno potrebbe poi obiettare che un certo grado di manipolazione, o di reinvenzione della memoria, è tipico di tutti i processi di costruzione nazionale. Ovunque le autorità politiche e gli apparati pedagogici tendono a valorizzare i momenti alti della storia della loro nazione, a coltivarne le glorie e a custodirne i miti fondativi. Vero, ma c'è una differenza sostanziale. Nei Paesi liberi questi temi sono oggetto di continuo, e spesso aspro, dibattito. Anzi, la messa in discussione dei miti e la rivisitazione delle pagine buie costituiscono, quali che siano i loro esiti, una premessa e un passaggio necessario della riflessione storiografica e poi della costruzione di una memoria condivisa (che non significa imposta da una legge). Per fare solo qualche esempio, gli storici francesi hanno studiato i massacri in Vandea e, sia pur con ritardo, il regime di Vichy, gli americani gli orrori della guerra di secessione; i tedeschi hanno avviato negli anni '80 la discussione sui crimini nazisti e sul "passato che non passa", gli inglesi hanno affrontato senza reticenze la storia del colonialismo; gli italiani non hanno mai smesso di discutere sulla "conquista regia" e sui limiti e le colpe del movimento risorgimentale nemmeno quando celebravano il 150° anniversario dell'unità; e infine - è storia di questi giorni - hanno fatto solennemente ammenda, per bocca del capo dello Stato, del contributo fornito dal regime fascista alla persecuzione degli ebrei fra il 1938 e il 1945. Viene allora da pensare che anche la capacità di accettare il proprio passato, e di discuterne in libertà senza eludere i temi scabrosi, rappresenti un discrimine significativo per misurare la qualità di una democrazia».

P.S. Naturalmente Marta, cui ho mandato il post, pur non avendo ancora letto la legge, è in parte difensiva in una lunga riflessione, di cui metto un pezzo. Ricordato come suo nonno parlasse yiddish con i suoi vicini di casa ebreo, la mia amica polacca puntualizza: «Il governo polacco, di cui non sono una grande ammiratrice, ha cercato di combattere questo fenomeno dei "campi polacchi" e ha voluto una legge il cui fine mettere fine a questa prassi e difendere l'immagine della Polonia che fu – diciamocela una volta ancora - la vittima della seconda guerra. L'intenzione di combattere questo fenomeno è, secondo me, positiva, ma il modo in cui il governo sta cercando di farlo, è "scarso"».

P.P.S. Poi, letta la legge, è stata meno diplomatica: «Che governo dei c... che abbiamo in Polonia... Questa loro fantastica legge è talmente vaga... Oggi, dopo la vicenda della legge, tutto il mondo parla "dei campi polacchi", cerca in Google... fantastico... che pubblicità... Ed Israele è infuriata con la Polonia. Ci vorrebbe un personaggio famoso israeliano che simpatizzi con la Polonia, per uscire di questo caos. Tristi le storie degli ebrei che han sofferto perché eran stati traditi da qualche mostro e posso capire anche la loro rabbia».