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03 set 2017

Stagioni della vita e filo di ragno

di Luciano Caveri

Ogni tanto, a chiusura della stagione estiva, quando le giornate si riaccorciano visibilmente, mi domando se questa dovrebbe essere la stagione di sempre, perché questa pienezza della natura, dal sole sulla pelle in poi, è davvero stare da papi. Poi, quando mi è capitato di viaggiare in Paesi tropicali, che pure hanno le loro magagne per via di intemperie che sono tempeste, mi sono risposto da solo, pensando a come sarebbe artificiale avere sempre caldo per chi è cresciuto nel clima continentale. Dovendo sempre spiegare a chi non conosca come sia che nella nordica Valle d'Aosta si registrano record di freddo d'inverno e record di caldo in estate e dunque siamo davvero abituati a vivere gli estremi per confluire poi, come se fosse la politica, al centro...

In effetti questa variabilità delle stagioni, neppure turbata nella sostanza dal nostro lamentarsi del venir meno delle mezze stagioni, finisce per essere qualcosa di cui - neppure nella logica "tout soleil" - potrebbe reggere. Come la mettiamo con le languide giornate di fine estate, quando a sembrare esangue è un declinare che sa già di autunno? E l'autunno? I colori sono davvero unici e pure la pioggia, vista anche con le nebbia, magari attraverso una finestra, finisce per essere intrisa di sentimenti. E l'inverno? Chi lo butta via l'inverno? La neve, se viene, è davvero un unicum con le sue possibili varianti e quelle giornate, magari con il cielo cobalto, in cui il freddo punge e ti fa rivivere con una sferzata. E poi la primavera, beninteso quando appare con nettezza, e quel risorgere della Natura, che sembrava morta e ogni volta il miracolo della vita che risorge e poi si affaccia, nel ciclo delle stagioni, con quell'estate con cui abbiamo esordito. Strana cosa, insomma, su cui si riflette non a caso in questi giorni di ripresa, in cui personalmente non ho voglia affatto di riprendere, dopo che la morte di un amico mi ha fatto apprezzare due sole cose, accanto al dolore che ha colpito tutto il resto. La prima è che certe botte ti fanno riprendere in mano la vita, diciamo in maniera più salda di prima, togliendo tanti fronzoli e facendo centrare la questione famosa del "Primum vivere deinde philosophari". Chi ha scritto la voce su "Wikipedia" è un genio per come si sposta su altro: «è una citazione latina che significa "prima vivere, poi filosofare». Avverte contro quelli che si dedicano a teorizzare, senza avere i piedi a terra. Si suole attribuire la frase ad Hobbes, anche se sembra che sia stata utilizzata precedentemente. Una espressione concettualmente simile (opposta) viene utilizzata nel "Don Chisciotte", nel "Dialogo tra Babieca e Rozinante": «il cavallo del Cid Campeador dice: - Sei metafisico. - No, è che non mangio, risponde l'ossuto cavallo di Don Chisciotte, Ronzinante. E' altresì simile alla massima: prima il dovere, poi il piacere». Non sono del tutto d'accordo, perché in quel "primum vivere" non c'è solo un lato pratico, ma ci sono proprio quei sentimenti che impastano la nostra vita, dandole un senso. La seconda cosa che ho apprezzato, a maggior ragione in epoca di "social" in cui vivi il paradosso di persone con cui dialoghi via Web che poi non ti salutano per strada, è l'omaggio ancora esistente ad una persona defunta di cui si riconosca la correttezza e l'animo gentile. Non è così banale in una società che ha troppo spesso come modellistica il trionfo delle carogne e delle malefatte. Per cui è proprio vero che da certe circostanze negative puoi cavare ancora qualche insegnamento e riflettere su queste stagioni fotografie della nostra vita, sempre appesa al filo sottile come quello di un ragno.