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08 lug 2017

Germi di colonialismo d'accatto

di Luciano Caveri

Ci sono temi che non sono facili da affrontare e ti vedi già chi, non cogliendo le tue ragioni, rischia di portare a spasso i tuoi pensieri, per cui è bene restare guardinghi e provare a spiegarsi per evitare storpiature. Premetto: il professor Giuseppe Morosini è stato un uomo simpatico e vitalissimo, il classico intellettuale non solo da scrivania ma da militanza politica sul campo, come fece in Mozambico e in Angola, seguendo la speranza di un marxismo realizzato. Diedi con lui - valdostano internazionalista con amore in particolare per l'Africa - due esami all'Università di Torino, dove insegnava "Storia dell'Africa" e "Sociologia dei Paesi in via di sviluppo". Lui, cresciuto a Saint-Christophe, spiegava con perizia e grande capacità di empatia con noi studenti cosa fosse stato il colonialismo con suoi drammi, ma non faceva neppure sconti ai fenomeni di liberazione nazionale sfociati in dittature o in forme mascherate di neocolonialismo con evidente continuità con il passato e complicità delle élites locali.

Lo faceva con crudo realismo per il troppo sangue versato e certa povertà devastane, ma anche con la speranza sempre viva di un riscatto da parte di popoli pieni di energia e spesso di grandi ricchezze in risorse naturali, anche quando le circostanze erano tragiche. Per cui, avendolo studiato la materia, so bene come il termine "colonialismo" sia da usare con grande attenzione per il rischio di farlo a sproposito o persino di apparire ridicoli. Eppure qualche germe, ovviamente decontestualizzato rispetto all'utilizzo ordinario, mi pare di vederlo anche in Valle d'Aosta e ciò beninteso in una logica modus in rebus. Viene in mente la "Dichiarazione di Chivasso" del dicembre del 1943 a favore dei popoli alpini, così riassunta in una magistrale articolo di Paolo Momigliano Levi, che parte da Altiero Spinelli: «Parafrasando Spinelli, anche per la "Dichiarazione di Chivasso" si può dire quindi ch'essa non era un invito a sognare, ma un invito ad operare. Essa tracciò per molti la rotta da seguire nella lotta contro il nazifascismo e nel dibattito sulla ricostruzione. E ne fissò gli obbiettivi etico-civili felicemente riassunti da Chanoux in chiusura di "Federalismo ed autonomie": "Tutti i popoli hanno diritto alla vita, i piccoli come i grandi. Tutti i popoli hanno diritto di conservare i propri caratteri, la propria personalità etnica e storica, a qualsiasi complesso politico appartengano. Come l'uomo persona ha diritto a vedere salvaguardata la propria personalità, così le collettività umane devono poter sussistere serbando intatte le caratteristiche della loro personalità. E' una legge di giustizia. E' l'unica garanzia di pace in Europa"». Oggi dovremmo riflettere in chiave moderna, sapendo che sarebbe velleitario chiudersi a riccio in un mondo globalizzato in cui giocare le nostre carte, almeno su alcuni punti che allora si posero: l'ignoranza del sistema autonomistico e delle tradizionali locali di molti che rivestono ruoli significativi nelle strutture statali, per non dire di un'estraneità ai valori culturali e storici espressi dalla comunità valdostana. Non si chiede nient'altro che rispetto e comprensione e questa riguarda anche molti compiti in diversi settori che, in assenza di concorsi su base locale, sono sistematicamente negati ai giovani valdostani in attività nevralgiche. La destinazione Aosta così per certi livelli può diventare solo una porta girevole per le "Poste", per le Ferrovie, per le Forze dell'ordine, per l'"Anas", per altri settori di Enti pubblici. Per non dire della tentazione perenne, anche in Regione, nei Comuni e nelle Partecipate regionali, espressione della nostra Autonomia, di meccanismi che finiscono per diventare "colonialistici" in una sorta di "Sindrome di Stoccolma" di cui si cade chissà perché vittime. Pensiamo alla scelta di premiare esperti, consulenti, aziende e fornitori esterni nel nome delle norme di concorrenza con bandi di gara astrusi ed escludenti già in partenza, senza neppure tener conto di misure esistenti di protezione del mercato locale a certe condizioni o alla necessità di far crescere professionalità in loco con meccanismi premiali. Il che, pensando che alimentiamo l'Autonomia valdostana con la fiscalità propria senza più fondi compensativi dall'esterno, crea una situazione assurda di perdita di ricchezza economica, oltreché di rinsecchirsi di intelligenze locali con il ritorno del fenomeno di emigrazione, questa volta intellettuale e non prescelta ma resa obbligatoria dal contesto. Insomma, una sorta di "colonialismo d'accatto" in parte esterno e in parte interiorizzato, che deriva - pensa alla dissonanza stridente - da atteggiamenti di superiorità di chi ci vede deboli e da complessi di inferiorità che noi stessi manifestiamo, da norme assurde rispetto a risorse proprie e da atteggiamenti passivi verso regole che finiscono per essere imposte e persino accolte. Un pasticcio da cui si esce imponendosi regole proprie di comportamento coerente nell'espressione del proprio Autonomismo e contestando ogni atteggiamento che violi di fatto questi stessi principi. Per farlo ci vuole la necessaria consapevolezza, altrimenti abbiamo solo un'Autonomia speciale di cartone, buona per farci retorica, maldestra nel suo utilizzo.