Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
21 giu 2017

Il virus del cerchiobottismo

di Luciano Caveri

Nel linguaggio, noto a molti, di Tex Willer la lingua biforcuta era quella che fotografava chi mentiva: le parole dicevano una cosa, fatti e pensieri un'altra. Triste anche in politica. Potrei raccontare storie divertenti su chi ti dice una cosa e fa il suo contrario con una naturalezza che lascia esterrefatti. Sarebbe facile rifarsi a Carlo Collodi nel suo universale "Pinocchio", quando ricorda al suo burattino birbone: «Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito! Perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo». Ma in verità, dai filosofi greci sino ad oggi, sono state miriadi gli autori che hanno trattato dell'argomento, che almeno per me è semplificabile nel fatto che alcuni politici bugiardi sono lo specchio del mondo che rappresentano, anche in democrazia. Chi si somiglia si piglia.

Ma, in fondo, poiché al peggio non c’è mai limite, l'aspetto che oggi più m'impressiona, è la "sindrome del voto", cioè l'idea che l'attività politica abbia solo il filone di massimizzare i voti nella sfida elettorale che verrà, che riguarda non solo l'antica storia dell'uso delle menzogne, quanto la ricerca spasmodica di piacere a tutti per massimizzare i consensi. C'è un termine romanesco che rappresenta in maniera esemplare questo atteggiamento: il "piacione". Modo di porsi che finisce per essere introiettato e fa sì che diventi una sorta di automatismo. Bugie piegate alla "realpolitik" nel senso di non far trasparire mai con esattezza come la si pensi su di un certo argomento, riuscendo con abilità dialettica a zigzagare senza mai dire "pane al pane" e "vino al vino". Forse tutto sta nella parola "cerchiobottismo", cioè l'idea che di fronte ad un problema, che pure abbia una sua comprensibile complessità, si assuma naturalmente un atteggiamento di "un colpo al cerchio e uno alla botte", evitando cioè una nettezza di posizione, a vantaggio di una linea mediana che non spiaccia a nessuno, per non perdere per strada consensi. Per altro la definizione "cerchiobottismo" finisce per essere ingiusta rispetto alle sue origini. Lo osservava il filologo Renato De Falco: «Il colpo assestato al coperchio e quello, alternativo, alla botte era la magistrale e abile prerogativa dei remoti "bottari", che nella complessa fase di assembramento delle doghe dovevano infliggere in contemporanea opportuni colpi di martello sia alle stesse perché non si scompaginassero che ai cerchioni in ferro destinati ad avvincerle. Nel tempo l'espressione "dare un colpo al cerchio e uno alla botte" assunse il senso di doversi comportare, per precauzionali motivi di prudenza, in maniera da contemperare due contrapposte esigenze, ripartendo fra entrambe il torto e la ragione. Nulla quindi di opportunistico, di sottinteso o di farisaico quale oggi conferito dal politichese al modo di dire, mediante la forzata unificazione di due innocenti lemmi, tesa a deplorare l'ambiguità di quanti, pur professando differenti posizioni ideologiche, colludono fra loro per solo reciproco tornaconto. Alla faccia del buon vino da immettere nelle caste botti faticosamente strutturate dai loro leali fabbricanti, incapaci di sospettare che quella limpida fatica avrebbe dato squallido nome a un tanto discutibile comportamento». Ma ormai il "cerchiobottismo" ha assunto quella caratteristica di ambiguità che dicevo e questo crea confusione sulle posizioni, facendo dei programmi elettorali dei brogliacci utili per ogni uso in cui avverbi e aggettivi somigliano a quelle pertiche usate dai funamboli per camminare sul filo. Tutto ciò alimenta la sfiducia nella politica, in cui non distinguono più buoni o cattivi, uniti da un unico destino e crea la situazione, grottesca ma realistica, che l'astensionismo diventi il primo partito e finisca per essere in tanti casi una posizione politica vera e propria! Trovo che ormai sui grandi temi - e questo vale anche per la Valle d'Aosta - si debba cessare con atteggiamenti farisaici, che celano le reali convinzioni, a vantaggio di posizioni ipocrite che servono solo a presentarsi con equilibri furbeschi nelle diverse vetrine che abbiamo a disposizione, come i social, in cui trionfa un'immagine delle persone che non è sempre lo specchio della realtà, perché legittimamente tendiamo a dare la miglior rappresentazione possibile di noi. Ma se questo è quasi sempre un gioco, pur talvolta innocente e vanitoso, diverso è quando si entra nel cuore di questioni vitali per il futuro di una comunità e in questo caso l'ambiguità nuoce.