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05 set 2018

Quattro questioni sul Casino

di Luciano Caveri

Pur conoscendo discretamente bene il dossier "Casino de la Vallée", nessuno in questi anni mi ha chiesto che cosa ne pensassi della situazione sempre più grave che si stava creando. Credo che sia giusto così: ognuno di quelli che se ne occupano si assume, nell'avvicendarsi dei ruoli politici, delle responsabilità in proprio e - mettendoci la firma, la faccia ed i rischi di rispondere di eventuali danni erariali - questo vuol dire agire in autonomia e con i pareri che si vogliono sentire. Mi pare, per altro, che vadano per la maggiore consulenti e esperti "esterni" alla Valle, che si vede si considerano più sapienti di quelli locali. Giunti ormai a settant'anni dall'apertura della Casa da gioco di Saint-Vincent, siamo ad una svolta da ultima spiaggia che lascia quasi increduli, pensando ai fasti del passato, ma non è con memoria e rimpianti che si avanza. Anzi, io credo che non ci si debba stupire: dieci anni fa, quando il dossier sul futuro del Casinò era ancora sul mio tavolo di presidente della Regione qualche idea me l'ero fatta sui rischi incombenti, ma tutta una serie di circostanze - compresi i sassi negli ingranaggi che mi trovai ad avere - fecero sì che alcune idee finissero nel dimenticatoio.

La prima questione: allora si cominciò a lavorare, ma la pista si esaurì, sulle azioni lobbistiche che le quattro Case da gioco avrebbero potuto intraprendere contro lo sbracamento in atto da parte dello Stato per la diffusione abnorme del gioco d'azzardo, specie - allora erano in voga le "sale bingo" - con la questione della diffusione indiscriminata delle slot machine nei bar, ma anche attraverso il proliferare dei giochi più vari che hanno trasformato le tabaccherie in rivendite di ogni sorta di diavoleria per spennare il cittadino. La lotta è risultata perdente, perché dalle crepe nei muri preesistenti si è passati ad un abbattimento dei muri fino ad una deregulation, per cui fanno ridere quelli che attualmente, dopo silenzi complici di un mondo che ha infiltrazioni mafiose da paura, piangono per la ludopatia come malattia sociale. Oggi recuperare un ruolo delle Casa da gioco è come nuotare controcorrente, ma proprio nel nome di un controllo reale dei giochi e delle sue conseguenze in sede parlamentare bisognerebbe riprendere il tema anche nel nome della legalità. La seconda questione: a suo tempo feci fare uno studio - chissà dove sarà finito - sull'organizzazione ed i carichi di lavoro, essendo evidente che - ancora in epoca di "vacche grasse" - sarebbe stato più facile intervenire sui costi e sull'ottimizzazione delle risorse della società. Mi riferisco ad esempio ad uno dei tabù: l'intercambiabilità dei croupier nei diversi giochi lavorati, che sembrava essere un argomento intoccabile. Tutto è sparito nel dimenticatoio, anzi si è spinto ancora di più su logiche clientelari che hanno peggiorato i conti (e qualità di certe persone in ruoli apicali) e solo l'emergenza di bilanci in rosso fuoco, per altro nascosta ai valdostani nella loro realtà più cruda, ha portato ad occuparsi del problema, quando ormai la situazione era da canna del gas. Oggi non è facile, ma bisogna fare attenzione a non buttare l'acqua sporca con il bambino, perché avere vivente una concessione - validata con artifizi giuridici da una vecchia sentenza della Corte Costituzionale - sarebbe stupido. La terza questione: leggo che cresce una consapevolezza sull'obsolescenza dei giochi offerti dalla Casa da gioco e la necessità di capire cosa vogliano i giovani, ipnotizzati dai videogiochi. L'argomento prevedeva all'epoca la nascita di una società ad hoc che studiasse questi cambiamenti di gusti e tendenze, ma non se ne fece poi nulla. Come cadde nel dimenticatoio, inseguendo gli improbabili clienti "vip" cinesi, la questione di come curare, in apposite aree, quei clienti facoltosi, che ormai stavano prendendo strade diverse per alimentare la loro passione per il gioco. Si preferì la logica del lasciarsi andare, accompagnata da annunci roboanti di svolte imminenti, mai avvenute. Restano, come iceberg alla deriva, comunicati stampa negli archivi che annunciano che "tutto va bene". La quarta questione: dopo l'acquisto dei beni ex "Sitav", compreso "Billia" e terreni dell'accerchiamento (cioè le proprietà che avevano cinto d'assedio le proprietà regionali), si dovevano fare i lavori d'ammodernamento. Oggi possiamo piangere sui costi folli di ristrutturazione, sulla progettazione dubbia, sulla scarsa qualità dei manufatti, sulle scelte contraddittorie registratesi nel tempo, facendo e disfacendo come nulla fosse, inseguendo piste improbabili e improduttive che sembravano frutto di improvvisazione e percorsi a zig zag. Questo è avvenuto senza coinvolgere il paese di Saint-Vincent imbruttito ed ingrigito con le sue attività commerciali ormai al tracollo, contraddicendo ogni indirizzo politico sul punto e facendo cessare d'improvviso ogni manifestazione culturale e ogni forma di mecenatismo sul territorio. Il "Centro congressi", vuoto malgrado la nascita di organismi che avrebbero dovuto fare risorgere questo settore, è il segno plastico del fallimento di una progettualità senza gambe e pure senza testa. Oggi è davvero difficile, sulle macerie, ricostruire un clima costruttivo e quella fiducia per il futuro senza la quale ogni scelta rischia di trasformarsi in un nuovo capitolo fatto solo di difficoltà. Lo dico con grande tristezza.