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27 mag 2017

Il dito e la luna

di Luciano Caveri

Capita a tutti - ed è un esercizio salutare - di pensare come comportarci con il nostro futuro nelle cose piccole ed in quelle grandi, anche se poi la distinzione non è così facile da fare. Con il rischio evidente di finire prigionieri nella vita, così come nell'impegno politico, di uno spazio quello sì angusto, fatto di abitudini e di ripetitività, venato da una sorta di rassegnazione nel fissarsi confini. Il proverbio - pare di origine cinese - è ben noto e di quelli pronti all'uso, persino ricorrendo ad un'efficace gestualità: «Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito». Detto che segnala in sostanza il rischio di navigare nel quotidiano senza guardare con la necessaria attenzione a quello che verrà, facendosi distogliere da quanto appare più evidente nell'immediato.

Detto così non ci sarebbe scelta: perché per buonsenso non si dovrebbe mai tenere per lo stolto, ma sempre per il saggio che guarda più lontano. Ma forse la questione non è così semplice per l'importanza che riveste la quotidianità con la miriade di problemi personali e collettivi che ci assediano e che di fatto ci impediscono di guardare la luna, come immagine poetica del futuro che verrà, in un sodalizio antico. Ha osservato su questo lo scrittore giapponese Haruki Murakami: «Quel satellite era sempre stato un prezioso alleato del genere umano. La sua luce era un regalo caduto dal cielo. Prima del fuoco, degli attrezzi, del linguaggio, la luna rischiarava il buio del mondo e calmava la paura degli uomini. Le sue fasi avevano insegnato agli umani il concetto di tempo». Ma noi sotto i piedi abbiamo la terra, che ci richiama alla necessità della concretezza, che - pensando alla fatica fatta per salirci su quella luna, una volta sola nel 1969 - fece dire all'autore francese François Mauriac, come ammonimento esemplare: «Il ne sert de rien à l'homme de gagner la lune s'il vient à perdre la Terre». Così a ben pensarci tocca trovare una mediazione fra questo avere il senso della realtà ed avere invece nella luna indicata con il dito un simbolo di speranza e di impegno per il futuro. Fatto di sogni, magari - come nel poeta Paul Verlaine e la sua "lune blanche" - quando dice «Rêvons, c'est l'heure» o in Giacomo Leopardi - con la sua "silenziosa luna" - nel suo appello accorato «Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia». Credo che in fondo questo sia oggi il compito - quello di essere, in senso buono, dei visionari - anche nella piccola Valle d'Aosta senza chiudersi in una visione asfittica di un'Autonomia come turris eburnea in cui rifugiarsi mentre il mondo attorno a noi muta con una velocità impressionante e non c'è appunto un eremo dove sentirsi sicuri. Dice Karl Popper, unificando dito e luna e questa mi sembra la soluzione più logica: «Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte».