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30 apr 2017

25 Aprile: per non dimenticare

di Luciano Caveri

Mi è capitato spesso di scrivere e di parlare della Resistenza e credo di averlo sempre fatto senza usare orpelli e retorica, che mi ripugnano. Si tratta di un fenomeno composito, molto umano nella sua costruzione, come può essere un'aggregazione che vedeva al suo interno persone - i partigiani - riunite in una logica di guerriglia, a cui ognuno da solo o nel penchant della propria banda dava significati diversi e certo accanto a momenti luminosi ci furono episodi secondari da condannare. Fra i partigiani c'era chi sfuggiva alla leva della repubblica di Salò, chi ne aveva le tasche piene del fascismo, chi trovava abietto il gioco dei nazisti, chi sognava la rivoluzione e via di questo passo. E c'era anche chi veniva da distante e non maturò una decisione derivata dai fatti del luglio e del settembre 1943, ma aveva fatto crescere nel tempo il suo antifascismo e qualcuno lo fece anche nel cuore del successo del Regime, quando esporsi era ancora più rischioso.

Quel che conta - penso alla Valle d'Aosta e all'eterogenea presenza di combattenti sul territorio - è che questa scelta, minoritaria rispetto alla maggioranza, diede una testimonianza di coraggio di reazione, che fece crescere nella popolazione un moto di solidarietà e comprensione. Certo molti il giorno della Liberazione - che non sarebbe avvenuta senza l'aiuto degli Alleati ed il loro intervento militare - scelsero il nuovo per convenienza e conformismo ed il "perdonismo" all'italiana consentì che il vento del Nord (dove si concentrò la Resistenza) diventasse un venticello nei Palazzi romani. Ma senza la Resistenza e militanti antifascisti pronti al momento giusto - ripeto: minoranza rispetto al consenso o alla catatonia generale - anche la piccola Valle d'Aosta non avrebbe avuto l'Autonomia speciale e l'Italia senza il ruolo morale dei partigiani non avrebbe avuto la chance di rientrare in fretta nella comunità internazionale e di avere - per fondare la Repubblica - una buona Costituzione, anche se alla Costituente la voce dei partigiani risultò già più flebile di quanto ci si sarebbe dovuti aspettare (pensiamo al voto deludente per il "Partito d'Azione"). Ma oggi fa più male l'oblio del revisionismo storico e ha ragione da vendere il grande Italo Calvino quando scrisse: «D'accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po' storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un'elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!» Ha scritto acutamente sulla "Treccani" Giuseppe Muroni: «La Festa della Liberazione non gode di buona salute. L'Italia soffre di problemi di memoria e di identità, è frammentata in tante storie individuali e collettive, in narrazioni pubbliche e private, in tante memorie contese e poche condivise. Il 25 aprile ha perso d'appeal, soprattutto fra le nuove generazioni, e sta trascorrendo tra celebrazioni rituali e sterili polemiche che spesso continuano a dividere il pubblico e lo storico di professione. Oggi, nonostante siano aumentate le informazioni sul nostro passato e gli studi che lo indagano, siamo di fronte a ciò che Eric Hobsbawm ne "Il secolo breve" intravedeva come patologia della generazione vissuta nel torpore di quel "presente permanente" di fine '900: la carenza di memoria, "la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l'esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti", in una parola: l'amnesia». Muroni, giovane regista e storico, risponde segnalando la necessità di uno sforzo verso i giovani attraverso i nuovi media, come tutto ciò che ruota attraverso la Rete, come quel "Voci di Resistenza", progetto web pensato per i settant'anni dalla Liberazione e prodotto dall'Istituto della enciclopedia italiana "Treccani". Altrimenti il 25 aprile rischierà di essere, per le future generazioni, neppure più un terreno di scontro come avviene ancora oggi per cascami ideologici dovuti anche incredibili nostalgie di una dittatura liquidata dalla Storia, ma una festività, che - se perdesse le ragioni di sostanza, che non vuol dire fare cortei, ma pensarci - diventerebbe buona solo come data per fare "ponte".