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26 mar 2017

La primavera, alle 11.29

di Luciano Caveri

Oggi ho messo sul mio telefono una suoneria di allerta adatta per segnalare l'attimo, scelta appositamente perché chiassosa e piena di allegria. Voglio pensare di poter cogliere così - scuserete la palese ingenuità - il momento fugace in cui arriverà l'equinozio di primavera 2017, calcolato da noi esattamente per le 11.29 del mattino, in un giorno in cui le ore di luce e di buio dovrebbero essere perfettamente identiche. Mi piacciono questi ritmi impalpabili, se non per esperti che sappiano dei calcoli astronomici, di cui cogliamo dunque solo un vago senso di un pianeta che torna da sempre sui suoi passi e si sa bene come questa prima stagione abbia finito per essere - e non a caso - qualcosa di più. "Primavera" è parola che viene usata anche in politica, quando si voglia definire il momento iniziale della storia di uno Stato o di una comunità, caratterizzato da forte entusiasmo e tensione ideale: una sorta di momento nascente pieno di energie.

Ma, dopo aver sperato in una "primavera valdostana" che ci scalderebbe gli animi e lavorerò per questo, torniamo al tema. A dire il vero la senti già nel cuore dell'inverno questa primavera che comincia oggi, quando sin da gennaio - come una luce azionata da un reostato - iniziano ad allungarsi le giornate. Così la Natura si risveglia e te ne accorgi nei giorni più caldi (e questo inverno ha avuto temperature così alte da essere un record), quando una specie di rinascita appare dal canto degli uccelli e dalle prime rifioriture. Io stesso, devo dire, che pure amo certo gelo secco dell'inverno alpino, sento a un certo punto il desiderio di cambio stagione, per altro regolato dal nostro orologio biologico. Anche se certo più si invecchia e più la vecchia metafora delle stagioni come la vita la indossi come se fosse un vestito su misura. Ha scritto con arguzia il poeta Jacques Prévert: «Une minute de printemps dure souvent plus longtemps qu'une heure de décembre une semaine d'octobre une année de juillet un mois de février».

A sua volta lo scrittore di montagna, Mario Rigoni Stern, così la racconta in una realtà che più ci appartiene: «Una rondine non fa primavera, ma due upupe innamorate, due leprotti in un cespuglio, una cutrettola che corre sulla strada, due scoiattoli che si arrampicano tra i rami di un abete, sì. Se poi avvistiamo un rumoroso calabrone, una farfalla che si chiama Arcia, un lombrico, se sentiamo il canto di un cardellino, è primavera anche se il giorno dopo nevica». Sappiamo quanto sia vero in una Valle alpina in cui caldo e freddo si inseguono anche lungo la scala della altimetria della nostra montagna, dove nulla mai dev'essere dato per scontato, al di là del solito «non ci sono più le mezze stagioni», luogo comune che Giacomo Leopardi ricordava già nello "Zibaldone", citando lo scienziato Lorenzo Magalotti, ed un brano del 1683 delle sue "Lettere familiari", dove scriveva: «egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son più; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d’impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno». Ah! Cambiano le epoche e tornano storie già note e noi contiamo le nostre primavere...