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24 gen 2017

Appennino: i terremotati sfiduciati

di Luciano Caveri

E' sempre difficile distinguere, nella vita come in politica, che cosa sia un progetto con una ragionevole speranza di concretizzarlo e invece cosa sia l'illusione di ciò che si sa già a priori che non si potrà realizzare. Come in tutto, ci sono "sogni buoni" – che ci aiutano a vivere – e "sogni cattivi", fatti già con una componente d'inganno che ha il gusto del veleno. Ci pensavo rispetto alle zone dell'Appennino colpite dal terribile terremoto estivo e dalla sua infinita coda di scosse di assestamento, martoriate da gelo e neve e prostrate anche dal dolore, più che comprensibile, delle popolazioni locali, cui mi lega il pensiero affettuoso di una comunanza fra quei territori e le nostre montagne.

In più - per essere chiari - molti di quelli che sono rimasti lì, tenacemente legati alle loro radici, non lo fanno con il capriccio di non muoversi ad esempio verso gli alberghi a disposizione sulla costa, ma perché - penso agli allevatori di bestiame - andarsene avrebbe conseguenze irrimediabili. D'altra parte si sa bene che esiste nel legame con la propria terra qualcosa di immateriale e lo leggi nel volto delle persone intervistate alla televisione. La fondatezza delle loro preoccupazioni è da tenere in considerazione ed anche il tono della protesta avviene in modo civile e mai lamentoso o rivendicativo. D'altra parte chi ha creato illusioni, nel racconto di promesse di immediatezza difficili da mantenere per chiunque avesse un minimo di senno, oggi vede tornare al mittente, come un boomerang, certe dichiarazioni che davano l'inverno imminente - durante certe visite ufficiali in favor di telecamere - come facile da affrontare, perché si sarebbe disposto quanto necessario in tempi assai rapidi. Sentivo, con il crudo realismo di un tecnico che sa bene di che cosa parla, la portavoce della "Protezione Civile" nazionale, Immacolata Postiglione che - nel rispondere alle domande incalzanti di un giornalista del "Gr1" - faceva presente il quadro delle difficoltà di corrispondere con rapidità alle richieste delle popolazioni locali per il quadro giuridico e burocratico complesso, le condizioni climatiche difficili e l'orografia montana che certo non offre sempre soluzioni facili. Tutto giusto - ci mancherebbe - ma certe dichiarazioni di oggi stridono con l'ottimismo espresso, per primo, dall’allora premier Matteo Renzi, che aveva dettato un calendario irrealistico in molti sui passaggi ed oggi i montanari appenninici chiedono conto della situazione di ritardo e di disagio in cui si trovano immersi. Mi pareva, invece, che sin dall’inizio il commissario straordinario, Vasco Errani, che conosco come persona prudente e determinata, aveva messo dell'acqua nel vino delle esternazioni troppo frizzanti, ma questo alla fine - rispetto ai fuochi d'artificio dello "storytelling" - era passato in second'ordine. Ribadisco qui quanto lo stesso Errani con onestà aveva detto: «in un Paese come il Giappone certe zone a grave rischio sismico verrebbero dismesse per la evidente difficoltà di attrezzarsi con efficacia di fronte al rischio incombente di sismi dal carattere distruttivo». Ed invece la scelta - per non desertificare quella vasta zona dell’Appennino, ricco di storia e di cultura - è trovare soluzioni abitative che permettano di poterci vivere, facendo fronte - nel dedalo di norme varie, in primis quelle sugli appalti - all'emergenza più bruciante, proprio per evitare che zone già gravemente spopolate possano subire un colpo mortale e trasformare paesi già in crisi in veri e propri fantasmi e mi vengono sempre in mente Bussana Vecchia in Provincia d'Imperia - paese terremotato e mai riabitato - o, in Valle d'Aosta, la frazione Barmaz di Saint-Denis, abbandonata da oltre mezzo secolo, credo anche per una frana visibile da lontano. Questa epidemia di località che rischiano di diventare un nome su un cartello, senza più popolazione vivente, sono un bel problema per le zone terremotate, sommandosi difficoltà attuali a quelle antiche, come stratificatisi nel tempo. Eppure, proprio contro la retorica della montagna viva, quando invece è moribonda, bisogna fare in modo che quelle zone appenniniche disastrate possano diventare un modello e che, spenti i fari dell'attenzione, non abbia invece la meglio il buio dell'indifferenza, che ormai invece sembra prevalere.