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12 gen 2017

Dalle convergenze parallele ai ghirigori

di Luciano Caveri

A inizio anno è sempre bene essere vigili e guardarsi attorno per capire come butta, anche se, fra le previsioni fatte di fronte ad una pagina bianca e gli avvenimenti come si svolgeranno davvero, spesso le cose cambiano. Vedremo ad esempio quali rivolgimenti politici porterà in dote il 2017 nella politica valdostana, visto che già il 2016 non era stato per niente male con certi cambi di corsia improvvisi, come se niente fosse. Ma, si sa, tutto è possibile sull'altare del "cambiamento", parola chiave che va ricordato viene dal tardo latino, pur di origine celtica, con quel verbo "cambiare", che significava ab origine "scambiare". Interessante questa origine, se ci si pensa bene...

Ma evidentemente questo termine, che come tutte le parole può essere adoperato in buona o cattiva fede, è un segno dei tempi, visto che è stata una delle parole d'ordine del renzismo e - almeno per ora - a Matteo Renzi questo slogan ossessivo non ha portato bene, oltretutto essendo stato accompagnato da quella foga di apparire più che di essere, accompagnata dalla bramosia di fare parlare di sé costi quel che costi, in un perenne effetto annuncio che ha dato la crescente impressione invece di voler rifilare dei bidoni. Ma un altro fantasma si aggira nella politica valdostana e risale nella sua sostanza a quel termine che viene ascritto ad Aldo Moro ed alle strategie democristiane di accordo con la Sinistra: «convergenze parallele». L'accostamento dei due termini è di fatto un ossimoro: secondo la geometria euclidea, infatti, due rette parallele non potranno mai convergere. Proprio per questa ragione l'espressione è spesso usata in politica per indicare che due o più partiti convergono su alcuni punti, pur mantenendo una sostanziale distanza nella linea politica. La logica delle "larghe intese" - oggi questa è la dizione più corrente - avviene spesso sulle spalle degli elettori, ma nel nome, naturalmente, del nuovo prezzemolo politico, il "bene comune". Lo storico della lingua Luca Serianni ha scritto, anni fa, queste interessanti osservazioni: «Il politico finisce con l'essere apprezzato in primo luogo se è un grande comunicatore, se "buca lo schermo" […]: la tecnica del messaggio elettorale tende a identificarsi sempre più con una pura tecnica pubblicitaria, indifferente rispetto al prodotto da vendere. Se questo è vero, a soffrirne è magari la consapevolezza civica del Paese, l'effettiva capacità dell'opinione pubblica di maturare un giudizio politico, ma non certo la grammatica. Se di grammatica diamo una definizione larga […] non c'è dubbio che i pubblicitari - e i politici che si sforzano di seguirli a ruota - siano grammatici sopraffini, che conoscono tutti i mezzi per strutturare bene un messaggio e per assicurarne la massima efficacia possibile. Non sarei altrettanto comprensivo se dovessi giudicare non da storico della lingua, ma da cittadino pensoso della cosa pubblica. Ma questo è un altro discorso». Concordo su quest'ultima considerazione, specie quando l'utilizzo - del tutto legittimo - di tecniche di comunicazione ancora più sofisticate (i "social" sono una prateria) rischia di "vendere" una politica che non corrisponde alla realtà dei fatti. Qui non siamo più alla geometria ed alle sue regole, ma siamo di fronte al "ghirigoro", che da dizionario ha un illuminante duplice significato: "intreccio bizzarro di linee, di segni: tracciare un ghirigoro su un foglio bianco, (est.) giravolta, andirivieni, camminare a ghirigoro, a zig-zag". Mi pare che si spieghi così la fonte di certe inquietudini d'inizio anno, perché non si affermi - a fronte della necessità vera di voltare pagina sul serio - il gattopardismo concentrato nella nota e paradossale espressione del «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima».