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05 nov 2016

Fra la sindrome da ciabatta e l'Utopia

di Luciano Caveri

Trovo che sia sempre un bene ragionare su sé stessi e provare il giusto esercizio attraverso una specie di straniamento che ci consenta di guardare alle cose che facciamo e si sa che ciascuno di noi può essere sui propri comportamenti il più severo dei giudici. Può anche darsi che ci sia una sorta di automatismo nella scelta tranquilla di ripetere nella propria vita le cose già fatte. Una sorta di "sindrome da ciabatta" che vuole evitare, come avviene con la rilassatezza domestica, di fare qualcosa di nuovo e il nuovo - si sa - comporta qualche rischio e fatica. Trovo in queste ore esempio rimarchevole - essendo la televisione uno specchio sempre credibile della società che si sforza di rappresentare - negli indici d'ascolto del "Rischiatutto" vintage proposto con successo da Fabio Fazio, per non dire del ritorno di Pippo Baudo o di fenomeni ormai infiniti come le trasmissioni di Bruno Vespa ed Antonio Ricci.

Per altro, ma lo dico en passant, lo stesso Matteo Renzi ha dimostrato quanto nel nuovismo ci siamo invece elementi vecchi come il cucco e che chi viene definito giovane per età anagrafica non sempre lo è nella freschezza delle idee e nella coerenza dei comportamenti. Personalmente sono fautore delle discontinuità: ne ho fatte molte nella mia vita, specie nell'attività politica ma anche - che so - nelle scelte del libero e dei viaggi, perché trovo che un eccesso di abitudine ti impigrisca e faccia la muffa. Ha scritto Pablo Neruda: «Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce». Il francese aiuta, nello spiegare con un'immagine plastica, i rischi della "routine", che sarebbe null'altro che "Diminutif de route, proprement «petite route qu'on prend, toujours la même, par habitude". Questa sorta di gabbia mentale e comportamentale dev'essere ogni tanto rotta per evitare proprio questo: che l'intero nostro modo di essere si sclerotizzi e si finisca per essere robottini. E' questo spirito, tanto per capirci, che mi ha animato - non per chissà quale smania di potere - nel momento in cui ho dolorosamente rotto con il Movimento politico in cui sono nato e cresciuto, l'Union Valdôtaine. Quando mi sono accorto che aveva perso quell'impulso al rinnovamento in cui credevo ed era diventato, al di là della mancanza di democrazia, un luogo in cui ripetevano stancamente formule già trite e ritrite, come una giostra che giri senza muoversi di un passo. E anche nelle successive esperienze mi sembrava di essere un criceto nella ruota, quando invece l'azione che segue al ragionamento mai come in questi anni sarà decisiva per chi crede nel bene pubblico di una Valle d'Aosta che voglia dire la sua e non si crogioli in vecchie e stantie modalità ripetute come un mantra, come se il mondo girasse attorno a noi. Eppure - lo dico con piacere - vedo voglia di fare e di esprimersi, con persone cui vanno strette logore storie già viste, cercando invece forme di impegno e di espressione nuove, che forse saranno l'unica ancora di salvezza per avere una democrazia partecipata e non mercé di pochi addetti ai lavori con il rischio di un'oligarchia che non sia neanche un'élite di qualità. Utopia? Può darsi, ma viene in mente quella forza di una celebre frase di John Fitzgerald Kennedy: «I problemi del mondo non possono essere risolti da degli scettici o dei cinici i cui orizzonti si limitano a delle realtà evidenti. Noi abbiamo bisogno di uomini capaci di immaginare ciò che non è mai esistito». Un bel compito per i giovani, cui le generazioni più vecchie devono dare un aiuto sulla base dello loro esperienza e aiutare a trovare le loro strade.