Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
06 giu 2016

Il 2 giugno del 1946

di Luciano Caveri

Mi permetto di osservare, con un certo dispiacere, come i frutti della riflessione pubblica siano stati molto modesti, malgrado la nascita del solito Comitato, attorno al 70esimo anniversario della nostra storia con le diverse date canoniche dal 1945 sino allo Statuto del 1948. Idem per il concomitante centenario della cruciale prima guerra mondiale dal 1915 al 1918. Si dirà che ci sono pochi soldi, ma viste certe manifestazioni - anche sportive... - organizzate con dispendio di denaro, si sarebbero potuti fare momenti di approfondimento low cost, rivolti soprattutto a quanti - e sono purtroppo molti - vivono senza memoria storica e pure senza ricordi. Scriveva Luis Sepulveda che «un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». Come dargli torto: ci si agita talvolta e pure legittimamente - ci mancherebbe - attorno ai posti apicali della politica e non si constata che gli eletti rischiano di essere Generali senza truppe se le ragioni profonde che li legittimano evaporano.

Ma occupiamoci del 2 giugno e della "Festa (anniversario) della Repubblica" di oggi. Una festività nata ovviamente nel dopoguerra e "spostata sulla domenica a partire dal 1977 per poi, con pentimento, "rivivere" autonomamente dal 2001", anche se resta del tutto incomparabile con il sentiment popolare di un 14 luglio francese. Data ovviamente legata alla scelta, effettuata dagli italiani il 2 e 3 giugno del 1946, di liberarsi della Monarchia e di far nascere, per contro, la Repubblica. Decisione meritoria, pensando al ruolo nefasto sotto il fascismo della monarchia sabauda, quella avvenuta anche con il voto al referendum in Valle d'Aosta - terra sino ad allora fedelissima alla Maison de Savoie, malgrado periodiche frizioni - con il risultato netto di 28.516 favorevoli alla Repubblica e di 16.411 favorevoli alla Monarchia. Fosse stato per il Sud, invece, ci sarebbe ancora un Re... Dopo una prima volta con le elezioni comunali di qualche mese prima, il referendum e le politiche concomitanti erano state caratterizzate dalla partecipazione alle urne delle donne, escluse sino ad allora dal voto e tra l'altro la percentuale dei cittadini alle urne fu altissima. In quelle date si votò, infatti, anche per la l'Assemblea Costituente e venne eletto deputato Giulio Bordon (Nus, 26 maggio 1888 – 4 aprile 1965) per il Fronte Democratico Progressista Repubblicano, cioè la Sinistra contrapposta all'alleanza Democrazia Cristiana e Union Valdôtaine, e fu membro del Gruppo autonomista con personalità come Emilio Lussu (relatore del nostro Statuto), Piero Calamandrei e Leo Valiani. Personalità ottocentesca assai criticata per il suo ruolo al ribasso nei lavori sullo Statuto. Ma quel che contava davvero era che la Valle d'Aosta avesse ottenuto il diritto ad un proprio rappresentante alla Costituente. Una rappresentanza politica che sarà poi garantita con chiarezza nell'articolo 47 dello Statuto vigente: "Agli effetti delle elezioni per la Camera dei deputati e per il Senato, la Valle d'Aosta forma una circoscrizione elettorale". Se così nel fosse stato scritto nelle successive riforme elettorali saremmo spesso finiti, come avviene purtroppo per le Elezioni europee, in qualche circoscrizione gigantesca e dunque "addio" parlamentari valdostani. Il testo invece ha consentito sempre di mantenere quel collegio uninominale all'inglese - ad un solo turno "secco" - che ha permesso una rappresentanza parlamentare assicurata ai valdostani ed elezioni combattute con risultati spesso sorprendenti. Per altro la norma di salvaguardia non è lì per caso e non per caso la Valle rivendicò subito l'elezione di un suo costituente. Infatti il tema della rappresentanza parlamentare valdostana - pur con pochi votanti - nasce con lo Statuto albertino del 1848 e sino 1860 con sette Legislature del Regno di Sardegna, cui seguirono sino al 1921 diciotto legislature (numerate da VIII a XXVI), cui se ne aggiunsero quattro - dal 1921 al 1943 e dunque con numerazione sino a XXX - avvenute in epoca fascista, senza metodi elettorali democratici. In diversi momenti, in questo ampio spettro di tempo, dal 1848 al 1943, in Valle d'Aosta si pose il problema della presenza valdostana nell'unica Assemblea elettiva, la Camera, mentre il Senato vedeva Senatori di nomina reale. Al centro del dibattito i collegi elettorali (al massimo la Valle ne ebbe tre) e i sistemi elettorali con dibattiti al calor bianco quando la Valle non ebbe propri rappresentanti o ebbe, spessissimo nell'Italia sabauda, candidati "paracadutati" dall'esterno solo per avere un seggio. Di questa vicenda si ebbe di nuovo eco appunto per il già citato primo voto finalmente a suffragio davvero universale per le elezioni politiche per la Costituente, il 2 giugno del 1946. Capisco che da allora i numeri - uno per Camera - siano stati pochi rispetto al gran numero di parlamentari, ma ho la fierezza di dire, da deputato valdostano di lungo corso, che anche da soli si può fare un buon lavoro in ciascuna Camera ed in due - se affiatati - nel complesso del Parlamento e pesare molto di più di quanto potrebbe sembrare in una logica che fosse solo proporzionalistica. Basta impegnarsi, anche se nel comitato disposto fra "Italicum" e nuovo Senato renziano (in cui la Valle avrebbe un "nominato" in più) tutto sarebbe più difficile con certe maggioranze bulgare e con un Parlamento che diventerebbe il barboncino del Governo.