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26 mar 2016

La politica fra palude e nuvole al vento

di Luciano Caveri

Sono sempre in imbarazzo a scrivere della Lega. Lo sono perché avendone visti i primi passi ho sempre pensato alle grandi potenzialità di un movimento politico federalista, che fosse interprete di certi valori in una grande e soprattutto popolosa Regione come la Lombardia (che subito si unì a parte degli autonomisti veneti). Pian piano però - specie per le sirene romane che dimostrarono una straordinaria capacità attrattiva per la corposa pattuglia parlamentare dopo il 1992 - il fiore del federalismo perse un petalo dietro l'altro ed oggi quella vocazione primigenia (dovuta anche all'influenza iniziale dell'Union Valdôtaine e di Bruno Salvadori, amico della prima ora di Umberto Bossi) è sparita.

Prima con la scelta della Lega di un'alleanza di ferro con Silvio Berlusconi e compagnia, che di federalista non avevano neanche la suola delle scarpe, poi con gli scandali giudiziari che minarono quella logica di "diversità" verso "Roma ladrona", infine con la scelta - direi conclusa in toto con la candidatura di Giorgia Meloni a Roma - di spostarsi sempre più a destra con un legame di ferro (che mi pare allentato) con "CasaPound" - cioè la destra sociale neofascista - e con il lepenismo di Marine Le Pen, immortalato da uno shake in pista tra la stessa Marine ed il giovane (anche se ha 43 anni) Matteo Salvini. Salvini, che non conosco ma seguo dagli esordi, è molto mediatico e usa certi temi come clave e con una capacità di incidere sugli umori popolari. Ed è quello che in parte un leader deve fare. Se non fosse ovviamente che questi suoi zig-zag, a vantaggio dei gusti degli elettori, finiscono poi per snaturare l'antica vocazione. Un movimentismo che può pagare in certi momenti, ma che forse sconcerterà in prospettiva quello zoccolo duro di votanti "indipendentisti padani", ma che - immagino pensi Salvini - potrebbe essere compensato dall'occupazione dell'ala destra della Destra con un respiro nazionale non più padano. Per altro questa operazione di cambiamento, nel solco di un trasformismo per nulla nuovo nella politica italiana, è praticato con la stessa disinvoltura da Matteo Renzi, che tende più a stringere al centro il Partito Democratico con strizzatine d'occhio anche a destra (quello con Denis Verdini è un vecchio sodalizio) in una logica neodemocristiana, che mira ad occupazione furbesca di tutto lo scacchiere politico. Anche lui è un leader mediatico e moderno, che fa persino venir l'ansia nel suo continuo peregrinare per inaugurazioni e convegni, oltreché per la raffica con cui apre nuovi fronti al continuo inseguimenti dei desideri da esaudire dell'opinione pubblica, certo sondata da staff appositi. Naturalmente questo vuol dire, anche in modo spregiudicato, continuare ad aprire dossier senza alcuna certezza che quelli precedenti siano stati davvero chiusi. Populismo e movimentismo che assumono aspetti di difficile lettura nella conduzione che Beppe Grillo fa dei "Cinquestelle", annunciando sempre di volersi far da parte, per poi al momento opportuno usare il bastone per chi non segua la linea, che in parte viene dal misterioso programma di quel personaggio singolare che è Gianroberto Casaleggio. Anche in questo caso par di capire che certi avanti e indietro su temi importanti derivino dall'uso non solo del canale del Web sempre aperto, ma anche da un impiego accorto della sondaggistica. Per cui, dato per assodato - ed in Valle lo sappiamo bene - che una parte di elettorato ha la memoria che dura tre secondi come quella dei pesci rossi, la gran parte del restante, specie quella che resta più legata alla politica ed è delicata spina dorsale dei partiti ormai fragilizzati, resta vivamente scossa da certi saliscendi, che somigliano ai percorsi delle montagne russe. Nulla è inamovibile, ma anche la continua fibrillazione crea ansia e incomprensioni. Tra certa palude del passato che tutto rallentava e i cambiamenti continui di oggi, come nuvole spinte dal vento, penso ci possa essere una ragionevole via di mezzo.