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18 feb 2016

Quei bambini sugli sci

di Luciano Caveri

Ci sono cose che mi mettono allegria e tenerezza e pure un pizzico di nostalgia. Le classi delle scuole di sci sono una di queste, quando mi capita di vedere frotte di bimbi ancora alle prime armi, impegnati in pista con i rispettivi maestri, come in una giostra colorata che si snoda sul biancore. Con l'ultimogenito salgo proprio per quello in questo periodo nella stazioncina del Col de Joux, località sciistica domestica di Saint-Vincent, destinata a tristi destini in epoca di vacche magre, se non sarà integrata - come giustizia richiederebbe in analogia con Estoul-Palasinaz e altre piccole stazioni inserite in circuiti più vasti - nel comprensorio del "Monterosaski". Raggiunti i cinque anni e con due anni di sci sulle spalle, il piccolo Alexis è entrato a far parte di una lezione collettiva, che è una delle caratteristiche di partenza per chi dev'essere formato allo sci.

E per me è davvero un flash e mi vengono in mente quelle classi composte con i miei compagni di scuola di Verrès, quando si partiva in pullman - io ho un ricordo nitido delle scuole medie - con destinazione Champoluc, all'epoca con il solo comprensorio sciistico del Crest in un clima familiare da pane e salame ed era importante far parte delle classi con più stelline dove c'erano quelli più bravi a sciare. Se esistono tappe nell'educazione sentimentale - rubando la definizione da un celebre libro di Gustave Flaubert - possiamo dire che c'erano allora in quelle gitarelle settimanali diversi elementi validi per un ragazzino valdostano e non solo. Di valdostano c'era senza dubbio questo tentativo giusto che le scuole facevano di familiarizzare noi giovani con la neve: non solo direi per lo sport in sé, quanto anche rispetto ad una conoscenza dell'ambiente montano sovrastante i paesi di fondovalle che bisogna conoscere. E questo a beneficio anche tutti quelli che, magari provenienti da famiglie di immigrati, dovevano giustamente poter godere di quell'accesso al nuovo territorio di appartenenza che è una delle chiavi di volta dell'integrazione. E devo dire che, proprio in un paese come Verrès, l'integrazione ha funzionato, come mostra - capisco che l'esempio potrà far sorridere - quel Coro del paese che, con cognomi di varia provenienza, mette nelle canzoni valdostane quel sentimento che dimostra come lo "ius soli", per chi lo voglia davvero, si consolida facilmente in un senso di appartenenza. Poi, naturalmente, perché tutto il mondo è paese, questi pomeriggi nei brividi dell'età preadolescenziale erano anche occasione per mettersi alla prova con i bacetti alle morose in fondo al pullman e l'acquisto delle bottigliette dei liquori - le mignon che oggi non vedo più in vendita - per provare qualche prima ebbrezza. Trasgressioni all'acqua di rose e poi, perché si era lì per questo, grandi sciate con maestri in genere piuttosto ruvidi ed attrezzature sportive che, se comparate con quelle di oggi, fanno di noi ragazzini di allora dei pionieri della sci, mentre i pari età di oggi godono di soluzioni tecniche per noi impensabili con gli scarponi coi legacci e sci di legno su piste battute "alla bell'e meglio". Ma poi, tolti tutti questi orpelli, la sostanza è che bambini e ragazzi sono in fondo sempre gli stessi e vederli in fila dietro il maestro, mentre imparano la progressione dello sci riempiono il cuore e fanno riflettere sulle nostre responsabilità. Questo è davvero un mio rovello: in questo mondo così stretto fra mille problemi ed in una cappa avvolgente fra preoccupazione e pessimismo dobbiamo fare in modo - nella semplicità della vita quotidiana - di mantenere quel tasso di allegria che consenta a di crescere e di non sentirsi stretti alla gola per quello che sarà. Si tratta, in sostanza, di poter - nei limiti del consentito, perché la disperazione di certe situazioni uno non se la va a cercare - mantenere una discreta voglia di fare, per loro e per noi stessi. E vedendoli sciare, quei bimbi, il cuore batte forte.