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17 ott 2015

Un tamburo per l'Autonomia

di Luciano Caveri

Se va avanti così mi comprerò un tamburo e un megafono e andrò in giro sulle piazze della Valle d'Aosta, a costo di fare la figura del matto. Dopo un rullo per attirare l'attenzione, mi toccherebbe dire che non c'è nulla di peggio di un silenzio complice o di una sottovalutazione di quanto sta avvenendo. Come un paziente che posto di fronte ad una diagnosi grave - ma con speranza di guarigione - facesse finta di niente e aspettasse solo, rassegnato agli eventi e senza curarsi, di tirare le cuoia. «La résignation est un suicide quotidien», diceva non a caso Honoré de Balzac. Ancora più esplicito Italo Svevo: «Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande rassegnazione». Vale quel che temeva Emile Chanoux: «Les Valdôtains sont un peu trop tranquilles, même quand il s'agit de leurs intérêts les plus vitaux». E lui, negli anni bui del fascismo, di valdostani venduti ne aveva visti troppi e molti fra questi erano poi stati lesti a salire sul carro dell'antifascismo.

Con il rischio in più che oggi si aggiungano coloro che, distratti su certi problemi identitari perché li sentono estranei magari essendo da poco insediati in Valle o persino per scelta maturata pur essendo arrivati da tempo, non si rendono conto che l'autogoverno è un bene prezioso per tutti senza distinzione alcuna. Per cui bisogna dire di no dappertutto a questa strisciante arrendevolezza: si tratta di una necessità per spiegare quanto bisogna sapere, perché in Valle d'Aosta non si affermi, come profetizzava mio zio Séverin Caveri oltre mezzo secolo fa, la temuta "endroumia", cioè un atteggiamento soporifero del popolo valdostano, che sembra ora in effetti e purtroppo in larga parte inconsapevole di quel che gli sta capitando. Esiste un disegno che vuol trasformare la Valle d'Aosta in una remota e abbandonata banlieu torinese. Una marginalizzazione, com'è già avvenuto in larga parte della montagna alpina, malgrado tanti "bla bla" sulla montagna e che rende tristemente realistiche anche oggi molte delle cose scritte nelle desolate premesse della "Dichiarazione di Chivasso" del 1943. Vengono i brividi a leggere del "malgoverno livellatore ed accentratore sintetizzati dal motto brutale e fanfarone di «Roma Doma»". Io sono valdostano. Non sono né piemontese né ligure, per cui non vorrei neppure assumere un atteggiamento difensivo rispetto a questa baggianata di "Limonte" (accorpamento di Valle d'Aosta con Piemonte e Liguria). Vecchia storia macroregionale, riciclata in ultimo da quel Partito Democratico che stento ormai a riconoscere per posizioni politiche e deliri istituzionali che mi preoccupano in una logica "contro tutti" che si dimostrerà autodistruttiva. Vi prego datemi un pizzicotto, perché questo decisionismo e questa filosofia di "un uomo solo al comando" mi pare un incubo e certi disegni non hanno nulla di riformatore, ma mirano solo a riportare ogni decisione a Palazzo Chigi, azzerando tutto il resto. E sarebbe ora che ci si desse uno sveglione generale, prima che sia troppo tardi. Ci sono fenomeni che mettono un po' di tempo a crescere, ma ci si mette un sacco di tempo a disfarsene e visto che non sono più un ragazzino non ho voglia di finire in una gabbietta con qualcuno che mi obblighi a cinguettare la musica che decide solo lui. Considero per i valdostani (devo ancora dirlo di origine e di adozione?) l'attuale autonomia speciale come il minimo sindacale di libertà. Ritengo che la formula attuale di autogoverno abbia - purtroppo per la nostra credibilità - dimostrato una deriva autoritaria da correggere, ma gli strumenti ci sono. Non si può accettare che l'autonomia politica venga svuotata da un continuo taglio delle risorse finanziarie e da un centralismo crescente, che sia il metodo impositivo del renzismo fiorentin-romano o certa burocrazia cieca di Bruxelles per un disegno politico comunitario basato sugli Stati e non su tutti i popoli che nel Vecchio Continente hanno diritto alla propria sovranità. La sussidiarietà del federalismo serve a consentire di delegare ai livelli più elevati, Stati e Europa, quelle materie che ciascuna comunità ritenga di affidare ad un altro livello di governo, cedendo volontariamente propri poteri e competenze e non, come avviene oggi, con un centralismo nazionale ed uno comunitario che con violenza impongono i propri diktat in spregio alla democrazia di prossimità. Chi oggi subisce pure la restrizione dell'esistente, pensando di sfangarla nell'immobilismo, sbaglia di grosso.