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16 ott 2015

Un Expo in coda

di Luciano Caveri

Sono stato all'"Expo" di Milano e qui annoto qualche mio pensiero e lo faccio con la consapevolezza che si tratta di un grande "baraccone" di divertimenti, malgrado i riferimenti pomposi nel filone della sostenibilità, prezzemolo del millennio (sostenibilità in cui - per chiarirlo - credo assolutamente, ma non come verniciatura del politicamente corretto). Non a caso il guru di "Slow Food", Carlin Petrini, non ha lesinato certe critiche ad una manifestazione cui aveva contribuito con entusiasmo nel ben definire un tema serio, come filo conduttore, come quello del cibo e dell'alimentazione e tutto ciò che vi ruota attorno. Avere come sponsor principale "Coca Cola" e "Mc Donald's" penso gli abbia inferto un gran colpo...

Ho anzitutto constatato un movimento concomitante fra il desiderio degli organizzatori di fare grandissimi numeri per dimostrare che l'Expo è stato un successone e tutti noi che in dirittura d'arrivo abbiamo deciso di andarci per dire «io c'ero». Per cui è saltato il "tappo" ed in questi ultimi giorni di pienone la visita diventa un percorso di guerra con una costante: un affollamento bestiale e code chilometriche, spesso per visite che si dimostrano deludenti, perché quasi sempre non commisurate ai tempi di attesa. Sarò antipatico, ma trovo che - visto che la gran parte dei biglietti sono prenotati ed associati alla giornata di visita - il fatto di non essere riusciti a spalmare da maggio ad oggi i visitatori ha creato ora un eccesso di visitatori, che intasa tutto e genera disagi. Sarò snob, ma questa logica di avere in pillole tutti i Paesi del mondo - in questo caso attorno al cibo, ma spesso sono mercatini etnici - è una modalità ottocentesca almeno per tre ragioni. La prima: quando non c'era la televisione, cui si è aggiunto Internet, era difficile avere una visione di usi e costumi del mondo. La seconda sono la possibilità di viaggiare con maggior facilità e minori costi. La terza è che la globalizzazione è ormai fra di noi con flussi che vanno e vengono. Eppure l'Expo, preso più come svago che chissà per quale altra ponderosa ragione, è piaciuto, soprattutto agli italiani, come penso si vedrà dai dati del consuntivo delle visite. Per cui si convive in un "pigia pigia" con un numeri notevoli di studenti e gruppi organizzati, in un tripudio di foto (da buttare?), con il solito specchietto per le allodole di belle ragazze negli stand e un latente odore di fritto. Tutto ciò, tuttavia, pensando a certi orrori dei conflitti mondiali e odi vecchi e nuovi far popoli, dà il senso gioioso di una festa strapaesana fra diversi Continenti, ma sia chiaro come i padiglioni ricchi o poveri seguono il "Pil". Il mio personale "Premio simpatia" lo vince il piccolo spazio del poverissimo Paese africano São Tomé e Principe, già colonia portoghese, dove mi sono ripromesso di andare. Tocca ripetere che la presenza valdostana (che un tempo aveva l'ambizione di essere un "Pays d'Etat", ora vivacchia aspettando di morire in "Limonte") all'Expo è stata troppo breve, solo una quindicina di giorni. Pochi - visto che l'Expo non era il contorno - per far nascere una società di scopo, una partecipata destinata pure a sopravvivere sotto altra pelle, come se fosse il momento di coltivare sovrastrutture... Dopo la visita, resto convinto che bastava avere un angolo per il mangiare e il bere valdostano per fare pure i soldi e, visti i chioschetti dei cannoli siciliani o della piadina romagnola e tanti simili, alcuni produttori dovrebbero pensare all'occasione che hanno mancato. Penso davvero che chi ha impostato il dossier abbia sbagliato, ma non resta che il rimpianto ed coltivarlo un esercizio inutile per eccellenza. Adieu, Expo.