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03 set 2015

L'"effetto farfalla" e la Cina

di Luciano Caveri

A descrivere il mondo e il suo funzionamento sempre più interconnesso, fino al limitare di noi stessi e delle cose che ci capitano, ci sono teorie complicatissime studiate dagli scienziati, la cui lettura può portare al capogiro (in passato mi son dovuto studiare la teoria del caos...). Per questo spesso in una logica sintetica, che sembra odorare di paradosso ma non è affatto così, ogni tanto, anche nella quotidianità, parliamo di "effetto farfalla". Fu il meteorologo del "Mit" di Boston Edward Lorenz che, nel 1972, intervenendo a un convegno, esordì affermando: «Può il battito d'ali di una farfalla in Brasile generare un uragano in Texas?». La risposta, positiva, derivava dalle sue simulazioni al calcolatore dell'evoluzione temporale di un sistema atmosferico.

A leggere la storia dell’espressione, che appare poetica ma ha i piedi ben piantati per terra, si risale più indietro e già nel 1950 il matematico Alan Turing, in "Macchine calcolatrici ed intelligenza", aveva avanzato un ragionamento simile: «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza». Fa venire i brividi pensarci, visto che a tutti sarà capitato per un soffio di evitare il peggio. Ma pare che questa storia della farfalla sia poi diventata popolare attraverso un racconto fantascientifico del 1952 di Ray Bradbury, "Rumore di tuono", nel quale gli uomini erano in grado di viaggiare nel tempo attraverso delle particolari macchine. Schiacciando inavvertitamente una farfalla, uno dei personaggi causerà disastri che interesseranno non solo il suo presente ma anche quello di tutto il genere umano. Oggi spesso nel battito delle ali della farfalla si usa, al posto dell'originario Texas, la Cina, forse per la componente maggiormente misteriosa e impenetrabile per noi occidentali. E credo in effetti che sia così, pensando alla famosa profezia di Napoleone. Si racconta che nel 1803, le Général, guardando la mappa del mondo, si soffermò sulla Cina, Paese lontano e poco conosciuto, dicendo: «Qui giace un gigante addormentato. Lasciatelo dormire, perché quando si sveglierà scuoterà il mondo!». In realtà Napoleone Bonaparte basava queste sue preoccupazioni sulle relazioni ricevute da missionari gesuiti che si erano insediati in Cina già da due secoli. Ora la Cina pesa come un macigno e lo dimostra cosa sta capitando in Borsa (crollo di cui i media cinesi non possono parlare) in questi ultimi giorni con risparmiatori di tutti i Continenti in apprensione per quel che avviene in un Paese dove si erano messe a giocare con le azioni un centinaio di milioni di persone (più degli iscritti al Partito Comunista Cinese). Eppure questa è la realtà di fronte alla quale ci troviamo e non è solo l'economia che guarda alla Cina ora con apprensione e in passato con cupidigia, viste le dimensioni del mercato, la crescita pazzesca e certi vantaggi, ormai relativi, che hanno spinto molte aziende a delocalizzarsi laggiù. Mi viene sempre in mente Tiziano Terzani, che sulla Cina ha scritto pagine bellissime, raccontando con delusione quanto il sogno della rivoluzione maoista sia stato un sogno di cartapesta. Commentò in un'intervista questo mondo insondabile - che resta una dittatura, perché non basta imitare il capitalismo per fare la democrazia - così dicendo: «La Cina è stata la mia grande avventura. E' una grande civiltà, per volerla capire bisogna avvicinarcisi quasi camuffandosi. In tutte le lingue asiatiche "altro" è una parola orribile. Identifica lo straniero, colui che è fuori, colui che viene da fuori e deve rimanere fuori. Se si è già incapsulati all'interno di una parola che rende stranieri, l'unico modo per avvicinarsi ad una cultura è fare come il camaleonte, che prende il colore della foglia se è sulla foglia e il colore della sabbia se è sulla sabbia: diventare sempre di più come l'altro. Io in Cina parlavo cinese, mangiavo cinese, vestivo cinese, mandavo i miei figli alla scuola cinese, viaggiavo insieme alla famiglia con le biciclettine dei cinesi. E nonostante tutto ciò a un certo punto i cinesi mi hanno chiesto: «Ma tu chi sei? Un italiano che lavora per i tedeschi, che parla cinese imparato in America, sei forse della "Cia" o del "Kgb"?». Dopo l'interrogatorio ed un mese agli arresti, arrivò l'espulsione». Dopo alcuni decenni molto resta uguale, come mi raccontava giorni fa un giornalista e film-maker valdostano che vive ad Hong Kong, Paolo Bosonin, che - pur lavorando per il prestigioso "Wall Street Journal" parte video - non riesce ad ottenere i visti necessari per alcune zone della Cina, perché finito in un elenco dei giornalisti cattivi per certi reportage sui problemi cinesi di quando lavorava per "Canal Plus" a Parigi. Libertà...