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20 ago 2015

Temporali

di Luciano Caveri

Basta farci mente locale e lo si constata. Abbiamo dentro di noi - e lo si osserva anche da piccole cose - comportamenti istintivi che prescindono dalla nostra spiccata capacità di apprendimento, che pure è quanto ci distingue di più dagli altri animali. Così se da un lato ci poniamo di fronte alla Natura in modo razionale, definendoci "homo sapiens" grazie al fatto di aver pian piano smontato e disvelato gran parte dei meccanismi del suo funzionamento, dall'altra manteniamo aspetti irrazionali, che arrivano chissà da quale profondità appiccicati al nostro patrimonio genetico. Così di fronte ai temporali, che in queste ore scuotono le Alpi con questi eccessi che caratterizzano i cambiamenti climatici cui dovremmo abituarci e che dovrebbero spingersi a comportamenti più virtuosi per evitare il peggio. E talvolta chiamarli "temporali" (o "tempeste", che ha le stesse origini) è davvero riduttivo, perché sono "nubifragi" o, copiando male dall'inglese "cloudburst", "bombe d'acqua". E' bene essere pronti a reagire con tutte le misure possibili alla loro aggressività.

Io i temporali, quando forse non erano così continuativamente violenti, li ho guardati sempre volentieri e ne ho in mente di bellissimi. So che l'umanità è divisa fra chi li ama e chi li teme ed è pure qualcosa di patologico: come la "brontofobia" e l'"astrafobia", che sono, rispettivamente, la paura dei tuoni e la paura dei fulmini. Io faccio parte della schiera di chi non solo non ne ha paura, ma sta lì a goderseli e non teme di interagire. Cosa di più vitale di trovarcisi sotto con tutte accortezze per non restarci secco sotto un fulmine? Mi ricordo come fossi oggi le spiegazioni di mio papà sul rapporto fra lampi e tuoni per capire se il temporale si stesse allontanando o avvicinando. Penso poi ai miei cani e al terrore atavico verso grandi temporali tempestosi. Ci soccorre nella descrizione una poesia di Herman Hesse: "S'ammala il sole, s'accuccia il monte, carovane di nere nuvole stanno in agguato di fronte, in basso timidi uccelli volano, in terra trascorrono grigie ombre. Il tuono, lento dopo il fulmine, passa con rombo pauroso. Fitta, gelida la pioggia s'abbatte in rovesci di scialbo argento, scroscia in fiumi, scorre in rivoli, con mal trattenuti singhiozzi".

Un brano di Erri De Luca racconta del temporale sulle Alpi: "In montagna durante un temporale penso che sia la terra a chiedere la scarica di un fulmine. (…) In montagna la terra si spalanca alla pioggia, alla grandine, alla neve, le montagne applaudono i fulmini con scariche di sassi. I ghiaioni che stanno alla base delle Dolomiti sono un mare di applausi, di roccia spellata, bianca confetto, un calcare da nozze".

I temporali sono una drammatica messa in scena della Natura, che esalta gli ambienti naturali dove avvengono. La montagna come il mare, descritto da Giovanni Pascoli: "Un bubbolio lontano... Rosseggia l'orizzonte, come affocato, a mare; nero di pece, a monte, stracci di nubi chiare, tra il nero un casolare, un'ala di gabbiano".

E dopo? Non resta altro che Giacomo Leopardi: "Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato".

La tranquillità della vita, insomma, che riprendere nella sua rassicurante routine con quell'aria tersa dopo la pioggia. Sarà per questa stessa logica vincente della "quiete dopo la tempesta" che la canzone napoletana più famosa al mondo è diventata, nel testo di Giovanni Capurro, "'O sole mio", che comincia così come tutti ricordiamo: "Che bella cosa na jurnata 'e sole, n'aria serena doppo na tempesta!".