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30 lug 2015

L'ultimo viaggio di Franco Frachey

di Luciano Caveri

Franco Frachey, morto purtroppo in questi giorni, era un cittadino del mondo. Uno di quei valdostani che stanno bene ovunque, anche se poi - come tanti émigrés - gira che ti rigira fanno di tutto per tornare a casa, portando però in dote quanto appreso altrove come antidoto al rischio di provincialismo. Dalla frequentazione di Stati Uniti e Messico (quando c'ero andato in viaggio di nozze mi aveva fatto un'ampia lezione su tutto quel che dovevo fare, specie a Cancùn dove vivevano due dei suoi figli) aveva preso un'aria da vecchio "cowboy", che si innestava su un animo profondamente valdostano, ma con una capacità impressionante da poliglotta e di adesione con usi e costumi dl altre culture.

Forse la scelta di non superare i settant'anni è venuta da questa sua indole di combattente e per farsi ricordare quel che era: un ragazzone dell'Envers pieno di vita e grande raccontatore di un'esistenza piena di storie interessanti. Le raccontava con tono un po' guascone, di uno che non aveva paura di niente, mantenendo anche nelle peggiori situazioni un animo candido e con un cuore grosso così, dato in mano anzitutto ai suoi figli, per i quali - ogni volta che ne parlava - esprimeva fierezza e gli venivano i lucciconi agli occhi. Così se n'è andato purtroppo in un battibaleno, per un malanno che è risultato fulminante e forse ne avrebbe scherzato lui stesso, che prendeva della vita sempre il bicchiere "mezzo pieno". Come aveva fatto per lottare contro le banche o come aveva fatto quando si era inviperito che il suo settore artistico - la vetreria - non fosse stata considerata "artigianato tradizionale". Così a voce alta si lamentava delle ingiustizie ed annunciava battaglia. La vetreria era stata un caso della vita, in cui poi aveva creduto sino in fondo, diventandone esperto con quella grinta di chi, con viva intelligenza, avrebbe potuto fare qualunque. Negli ultimi tempi era una specie di chioccia con i suoi collaboratori e non si fermava mai. Ogni tanto compariva da me a raccontarmi di qualche nuovo sogno. L'ultimo era, in accordo con chissà quale riccastro arabo, costruire un ristorante dalle specialità americane. Ed era talmente affabulatore che queste bisteccone e il mais arrostito me lo vedevo già sotto gli occhi e mi veniva l'acquolina in bocca. Gli ero simpatico e mi aveva fatto una bella opera, che ho a casa, in cui illustrava - con il mio faccione su vetro - la mia attività politica. Quando me l'aveva regalata, avevo fatto qualche gesto scaramantico, visto che mi pareva una roba piuttosto postuma. E lui giù pacche sulle spalle e grandi risate per il suo amico Lucien. Che purtroppo, per motivi di lavoro, non ha potuto andare al suo funerale, ma forse è meglio così, perché il ricordo sarà sempre e solo da vivo, come se fosse partito per qualche nuovo viaggio o per una nuova avventura. Per questo non ho cancellato dalla mia rubrica il numero del suo telefonino. Magari da Lassù, con qualche nuova idea, mi telefonerà per sapere che cosa ne penso. San Pietro, vedendolo, avrà aperto il suo librone e gli avrà dato il benestare per il Paradiso e lui sarà già lì con una chiassosa camicia hawaiana, ma pronto ad intonare uno dei nostri canti di montagna.