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28 giu 2015

Estate

di Luciano Caveri

Ennio Flaiano così adoperava il suo spirito caustico: «Non c'è che una stagione: l'estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L'autunno la ricorda, l'inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla». Farà solo sorridere, come avviene con una bella battuta, eppure c'è una briciola di verità. Nel senso che abbiamo tutti veramente bisogno di caricare le batterie al sole. Non a caso estate viene dal latino "æstas", derivato da "æstus", ossia "calore". Scherzavo in queste ore con gli amici sul paradosso astronomico che situa la giornata più soleggiata dell'anno con il solstizio d'estate, che sancisce l'inizio della stagione! Maledizione da qui in poi pian pianino le giornate si stanno già accorciando! L'estate è per tutti un pozzo di ricordi e lo è anche per me. L'infanzia ha dei colori accesi, quelli della montagna alpina e del mare ligure. Era un "non spazio" riempito solo di scoperte. Cose banali e assieme straordinarie.

Mi viene in mente Mario Rigoni Stern, grande cantore della montagna alpina: "Quando si era ragazzi pareva che con lo sciogliersi della neve fosse già arrivata l'estate e alla sera, dopo aver tanto giocato lungo il torrente con l'acqua del disgelo, ci si coricava stanchi e accaldati. Godendo il fresco delle lenzuola si piombava in un sonno ristoratore che durava dieci ore. Che bel dormire! Senza affanni, senza dolori, senza sogni. Se così è la morte, non è brutto morire. Ma maggio non è ancora estate, e da noi molte volte nemmeno primavera perché una nevicata può imbiancare il verde nuovo dei prati. Anche le sere di luglio erano accaldate, non solo per il tanto giocare; qualche volta il taglio dell'erba essiccava dal mattino alla sera, il suo profumo restava nell'aria e accompagnava i nostri giochi. In quelle sere lasciavo aperta la finestra della camera sopra il tetto del portico; entrava l'odore aspro del fieno che fermentava nei fienili e appariva la luna, grande, sul tetto della stalla, da dove sentivo venire il battere degli zoccoli dei cavalli. I pipistrelli entravano e uscivano dalla luce lunare. Era bello guardare il cielo, sentire il profumo dell'estate e pensare a quella bambina con la quale avevi giocato sul prato, saltando i mucchi di fieno allineati nel tramonto del sole che allungava le ombre". Tolto qualche aspetto di altra epoca, il resto resta buono. E il mare, che io ho ritrovato da ragazzo quando venni fulminato dall'incrociarsi fra la mia vita e le poesie di Eugenio Montale. Fulminante è la storia dell'agave, che - a pochi passi dal mare - ci mette vent'anni a fare quel suo strano fiore svettante e poi la pianta muore: "O rabido ventare di scirocco che l'arsiccio terreno gialloverde bruci; e su nel cielo pieno di smorte luci trapassa qualche biocco di nuvola, e si perde. Ore perplesse, brividi d'una vita che fugge come acqua tra le dita; inafferrati eventi, luci-ombre, commovimenti delle cose malferme della terra; oh alide ali dell'aria ora son io l'agave che s'abbarbica al crepaccio dello scoglio e sfugge al mare da le braccia d'alghe che spalanca ampie gole e abbranca rocce; e nel fermento d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci che non sanno più esplodere oggi sento la mia immobilità come un tormento". Così per me l'estate è un "giano bifronte": queste montagne senza le quali il paesaggio è spoglio, ma anche la salsedine sulla pelle è una parte di me. L'identità personale e collettiva non sono argomento di poco conto. Raffaele La Capria, che il mondo l'ha visto, osserva: «Un'identità forte è una finestra sul mondo, capace di includere in sé anche le altre. Se è debole, invece, si limita a glorificare se stessa, rinchiudendosi nei confini del localismo».