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24 giu 2015

I silenzi sul non voto

di Luciano Caveri

Potrei sommergervi di dati sino a farvi fare indigestione: sarà la mia scarsa propensione per i numeri nudi e crudi, ma penso che sia evidente come anche in Valle d'Aosta dal dopoguerra ad oggi stia crollando - come un fragile castello di sabbia - la partecipazione al voto. E l'astensionismo si accentua se sommiamo anche quelli che, non trovando nulla di allettante sulla scheda, votano bianco oppure scatenano la loro fantasia annullando il loro voto con parole più o meno graffianti. Il fenomeno appare, anche in Valle d'Aosta, piuttosto sottostimato. Quando mi occupavo di politica attiva, mi sentivo come Calimero a predicare riflessioni sul punto, che sembra alla fine interessare poco, perché non esistono sul breve sanzioni sulla politica, se non ovviamente di tipo morale. Sul lungo termine quella massa crescente di voti inespressi, se invece dati, potrà innescare un'evidente disastro per lo status quo, qualora incanalati in modo dirompente, come prevedibile.

Ecco perché mi trovo a citare nuovamente, annoiando chi legga il "Corriere della Sera", il costituzionalista Michele Ainis, che segnala sin dal titolo: "Democrazia senza linfa vitale, troppi silenzi sull'astensione". Sin dall'inizio picchia duro: "Uno vince, l'altro perde. Ma c'è un partito che ad ogni elezione si gonfia: il non partito del non voto. I numeri dell'astensionismo elettorale ormai surclassano la Democrazia Cristiana dei tempi d'oro, pur senza ottenerne in cambio seggi e ministeri. Difatti alle Politiche del 2013 gli astenuti erano già il primo partito, con undici milioni di tessere fantasma. Alle Europee del 2014 l'affluenza si è fermata al 58 per cento, in calo di otto punti rispetto alle consultazioni precedenti. Alle Regionali del 2015 un altro salto all'indietro: 54 per cento, ma sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche. Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53 per cento) sui votanti. Questo fenomeno cade per lo più sotto silenzio. Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti. E' un errore, perché qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza. Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale. Però se l'onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d'indifferenza, nel migliore dei casi; d'avversione, nel peggiore. E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un'alluvione. La questione, dunque, interroga la democrazia, anzi la pone davanti a un paradosso. Perché la democrazia è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Il suo fondamento sta nella regola di maggioranza". Su questo aggiunge con sagacia: "E allora la democrazia entra in contraddizione con sé stessa, quando nega agli astenuti ogni influenza, benché essi siano la maggioranza del corpo elettorale. Di più: tradisce la propria vocazione. Perché la democrazia è inclusiva, accoglie pure le opinioni radicali. Tuttavia con il popolo degli astenuti diventa esclusiva, respingente. Anche a costo di rinchiudersi in una casa vuota: la democrazia disabitata". La proposta per uscirne è choc: "C'è modo di riannodare questo filo? Non imponendo l'obbligo del voto. Funzionava così nel dopoguerra, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi presso il sindaco, e per sovrapprezzo beccavano una nota nel certificato di buona condotta; ma il rimedio sarebbe peggiore del male, offenderebbe i principi liberali. Non è una buona soluzione nemmeno quella escogitata in Francia nel 1919: se non vota almeno la metà del corpo elettorale, le elezioni si ripetono. Con questi chiari di luna, rischieremmo di votare ogni domenica. Però la via d'uscita c'è, e oltretutto procurerebbe un risparmio di poltrone. Va alle urne il cinquanta per cento degli elettori? Allora dimezzo il numero dei parlamentari. E ne dimezzo altresì le competenze, trasferendole ai Comuni, se per avventura il voto cittadino risulta più attraente di quello nazionale. In caso contrario apro ai referendum sulle decisioni del sindaco, per supplire alla sua scarsa legittimazione. Un'idea bislacca? Fino a un certo punto. Nella Repubblica di Weimar si guadagnava un seggio ogni 60mila voti validi; e il medesimo sistema fu riproposto in Austria nel 1970. Anche in Italia, fino al 1963, le Camere esponevano numeri variabili in base alla popolazione complessiva; mentre c'è tutt'oggi un quorum per la validità dei referendum. L'alternativa, d'altronde, è una democrazia senza linfa vitale, perché il non voto ne sta essiccando le radici. Per salvarla da sé stessa, qui e ora, serve un lampo di fantasia istituzionale". Togliendo l'acqua ai pesci, la politica sarebbe destinata a un brusco risveglio dallo strano sonno, che rischia di riempirsi di incubi per la fragile democrazia italiana. Sulla fragilità di quella valdostana basta guardarsi attorno, constatando tra l'altro la vivace "campagna acquisti" del potere costituito con giocatori che cambiano casacca e fanno restare senza fiato per la coerenza gettata alle ortiche. Tutti hanno un prezzo?