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17 giu 2015

Guardando quei ragazzi

di Luciano Caveri

Ci sono immagini improvvise che ti illuminano la giornata. Ieri - ultimo giorno di scuola in Valle d'Aosta - ho portato mia figlia Eugénie al campo di rugby ad Aosta, dove si svolgeva la festa di fine anno del Liceo classico (che oggi aggrega anche l'artistico ed il musicale). Sarà la bella giornata di sole e il particolare colpo d'occhio di quella zona (montagne verdissime sul cielo azzurro e sullo sfondo il biancore del Ruitor), ma vedere tutti quei giovani in braghette corte e magliette colorate, sorridenti e distesi, divisi in tanti capannelli in attesa di cominciare la giornata, mi ha messo allegria per tutto il giorno. Mi sono imposto - e non è una difficile disciplina - di memorizzare di più i momenti belli della vita, che spesso riteniamo scontati e non assaporiamo come dovremmo fare, con l'evidente rischio di trovarsi un giorno ad avere dei rimpianti. E quel flash mi ha ricordato, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanti doveri noi adulti abbiamo verso questi ragazzi che si affacciano alla vita in questi anni difficili e che si trovano, specie quando la scuola Superiore sta per finire, a dover scegliere la loro strada.

Mi domando se siamo consapevoli delle loro e delle nostre difficoltà di capirci reciprocamente e pensavo a mio padre - uomo di altri tempi, sotto molti aspetti - ed alla sua capacità di esserci senza mai essere invasivo, anche per un pudore nell'esprimere i suoi sentimenti e senza giocare a ambigui rapporti di complicità, mischiando il ruolo di padre e quello di amico, che rischiano poi di creare confusione nei ruoli rispettivi. Mi veniva in mente quella frase fulminante di Norberto Bobbio: «I nostri diritti non sono altro che i doveri degli altri nei nostri confronti». Nel rapporto fra le generazioni questo gioco di equilibri fra diritti e doveri è un fatto decisivo nella formazione delle persone e dei cittadini e si fa ancora più decisivo quando l’impressione è che il cammino che i giovani devono percorrere è molto più accidentato di quanto sia avvenuto per chi è nato e cresciuto nel secondo dopoguerra. Non si tratta di vedere un passato fatto di rose e fiori, perché non era certo così, ma è vero che il clima generale - pur nelle mille difficoltà possibili, grandi o piccole che fossero - era improntato ad un clima di fiducia e di speranza. Mentre oggi esiste un clima greve, di cambiamenti profondi e di difficile lettura, che ti fa guardare al nostro futuro e al loro con inquietudini che rischiamo di trasmettere, spegnendo in parte quell'entusiasmo che è la benzina indispensabile per chi deve scegliere cosa fare, nel limite del possibile, della propria esistenza. Per cui da una parte bisognerebbe evitare di apparire ancora più vecchi di quel che si è con continui rimandi ad un passato migliore, ammonendoli troppo sulle incertezze del presente e delle prospettive future. Dall'altra bisognerebbe trovare il mondo per assecondare le speranze in un quadro realistico, sapendo che è sempre stata un'illusione quella di far ricadere certe responsabilità in proprio. Mi spiego con una frase di Marcel Proust: «On ne reçoit pas la sagesse, il faut la découvrir soi-même, après un trajet que personne ne peut faire pour nous, ne peut nous épargner». Per dire appunto - e credo che la prova dei fatti sia questa - che nessuno può sostituirsi alle esperienze che uno, anche sbagliando, deve poter fare ed essere protettivi non vuol dire affatto pensare di vivere la vita altrui. Ma certe riflessioni, che sono anche un continuo esame di coscienza sui propri comportamenti nel rapporto genitori e figli, sono per fortuna relativizzate, come mi è capitato ieri, dalla consapevolezza che - malgré nous - la forza vitale dei giovani resta un elemento contagioso su cui fare affidamento e lo si vede, con gioia, anche in un mattino di primavera nell'ultimo giorno di scuola.