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26 apr 2015

Comizi fra nostalgia e modernità

di Luciano Caveri

Partecipo come attore non protagonista e come spettatore (e talvolta come scribacchino) alla campagna elettorale per le elezioni comunali. Vado dunque ai comizi, come faccio ormai da un po' meno di trent'anni ed in genere ciò è avvenuto come oratore. Mi piace parlare in pubblico e quando mi è capitato di avere incontri in serie, uno dopo l'altro, mi divertivo pure a cambiare i miei interventi per non annoiarmi e per non annoiare chi mi seguiva più volte in occasione dei comizi. Ho sviluppato una tecnica discreta, anche se mi accorgo che più il tempo passa e più ho ereditato da mio padre un penchant battutista, che credo corrisponda all'aria dei tempi, in cui di toni drammatici ne abbiamo già abbastanza nella vita quotidiana. Ricordo la celebre definizione della vita, che sarebbe come una scala di un pollaio, cioè "corta e piena di merda". Non penso che sia così ma, se si deve scegliere, meglio ridere che piangere.

Devo dire di aver avuto - che fossi candidato o meno - dei sentimenti contrastanti e per fortuna mutevoli nel tempo verso i comizi. Solo gli stupidi, come noto, non cambiano mai idea. La politica e i suoi annessi e connessi sono sempre al confine fra vecchie abitudini e novità forti, specie con le nuove tecnologie che ci stanno modificando più di quanto ci sia dato sapere. Ho avuto il mio periodo giovanile da "rottamatore" (uso un termine in voga, anche se ormai frusto), pensando che il comizio tradizionale fosse morto e sepolto e che fosse da tenere in vita più per un'abitudine, rispettosa dell'antico, che per una reale necessità di comunicazione politica. Materia molto stimolante, che ho pure studiato, convincendomi che non è per nulla una scienza esatta, ma che si avanza con sperimentazioni empiriche e andando più a naso che con formule certe. Così ho contribuito nel tempo a formule innovative, mischiando la politica con intermezzi di spettacolo, facendo dirette televisive o usando filanti o fotografie, cercando di convincere che la brevità è un segno dei tempi rispetto al valore che un tempo si dava ai "discorsi fiume". Poi nel tempo mi sono in parte ricreduto e questo vecchio comizio - pur modernizzato comme il faut - è qualcosa cui sono affezionato, anche se smuovere le persone a parteciparvi è opera non semplice. Bisogna dunque prenderlo per quel che è: incontro fra aficionados, per dare le parole d'ordine della campagna elettorale, modo per ritrovarsi e più è piccolo il posto è ridotto il pubblico e più ne guadagna la convivialità. Per cui benissimo i "social", come nuova agorà dell'epoca digitale, ma il rapporto fisico e l'oratoria vis à vis resta un cimento per chiunque voglia infilarsi in politica. Se un consiglio mi sento di dare a chi è alle prime armi è la semplicità, parlando di cose che si conoscono, senza aver paura di avere appunti con cui rassicurarsi. Se si riesce a non leggere è meglio, perché la lettura è quanto di più dissuasivo dell'interesse di un pubblico. Nel fare un comizio ritroviamo in fondo l'antichità, visto che la parola viene dal latino "comĭtĭum - comizio" ed era, nell'antica Roma, l'adunanza del popolo con poteri elettorali e legislativi. Roba di piccoli gruppi, nulla a che fare con il nostro suffragio universale. Ci resta, in più, il messaggio da ricordare insito nella parola "candidàto", vale a dire chi si sottopone al giudizio. Dal latino "candidātus", derivato di "candĭdus - bianco", letteralmente "vestito di bianco", poiché a Roma chi aspirava alle cariche pubbliche vestiva la toga bianca. Oggi, anche il look cambia. Un tempo il candidato e la candidata erano obbligati a mise del tutto formali, oggi il vestiario - come dappertutto - si è fatto più informale. Lo si vede dalle piccole foto dei candidati sui manifesti alle comunali, che sono un segno tangibile degli usi e costumi in trasformazione. Insomma: i comizi, seguendo le mode e mantenendo le tradizioni, finiscono per essere uno specchio in cui la nostra comunità può - se lo vuole e oggi non è facile avvenga - specchiarsi.