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07 apr 2015

Sulla cooperazione luci e ombre

di Luciano Caveri

Mi diverte molto, nei quattro anni del mio bambino più piccolo, come a quell'età - oltre alla sequela dei «perché?», che metterebbe a dura prova anche la persona più paziente - inizi anche la richiesta di spiegazione di cosa vogliano dire con esattezza alcune parole. Mi accorgo, pensandoci bene, come rispetto alle parole esistano automatismi lontani che le riallacciano a dei pensieri profondi, forse davvero legati a quegli agganci che facemmo quando iniziò nella nostra testa la catalogazione dei significati, prima che poi subentrassero gli automatismi nel loro uso. Così la parola "cooperativa", non a caso entrata nell'italiano come sostantivo alla fine dell'Ottocento quando il fenomeno della cooperazione ("azione svolta in comune per raggiungere un fine collettivo") arriva in Italia. Per me - chissà per quale spiegazione primigenia - la cooperativa era davvero un gruppo di lavoratori che si associavano e facevano blocco per affrontare il mare procelloso dell'economia e del mercato. Solo più tardi, studiando i pensatori utopisti, specie quelli di stampo federalista, ho scoperto come questa impronta iniziale non fosse foriera di tante speranze, incarnate in attività nate nell'area della Sinistra e del mondo cattolico, che le importò in Italia (e pure in Valle d'Aosta).

Poi, negli anni, da diversa angolatura la constatazione che qualcosa non funzionava e che pure il dettato costituzionale (Articolo 45: "La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata") era ormai stato calpestato. Nella vita quotidiana, già crescendo, ti accorgevi dell'esistenza di piccole cooperative farlocche, nate solo per drenare i benefici fiscali o di finanziamento e poi, anche con l'esperienza politica, ti accorgevi come - con dimensioni degne di multinazionali - esistessero gruppi di cooperative che nulla più avevano a che fare con quegli scopi con cui la cooperazione era nata e tutelata. Ricordo come da parlamentare europeo colleghi di altri Paesi scherzassero sulla cooperazione all'italiana, che nascondeva - che poi non li nascondeva affatto a dire la verità per una certa sfrontatezza - proprietà di privati o di grandi holding economico-finanziarie, che pure pretendevano in Europa trattamenti privilegiati. Di recente poi, in tante inchieste di giudiziarie da "Mani Pulite" sino a "Mafia Capitale", si sono visti dei coinvolgimenti impressionanti con la nascita della nuova espressione, assai colorita è da non generalizzare con onestà, di "cooperazione a delinquere". In Valle d'Aosta, come ricordavo, la cooperazione è un pezzo di storia ormai secolare, ma pure nella nostra realtà ci sono situazioni, che hanno nomi, cognomi e indirizzi, che del mutualismo cooperativo hanno solo la vetrina, ma non il portafoglio. Sarebbe bene che certe situazioni venissero spazzate via da una revisione seria delle normative, che colpisca interessi enormi che risultano estranei alla cooperazione propriamente detta, così come si smascherino bugie di coop più piccole, che hanno usato - nei buchi della normativa vigente - i principi della cooperazione per dar vita semplici operazioni di camuffamento e, soprattutto, di distorsione delle regole di mercato. Forse la mia è solo l'illusione che l'Italia possa diventare un Paese normale e che le regole di concorrenza non finiscano per essere utile strumento per i soliti noti.