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13 mar 2015

Auguri alle donne, politicamente corretti...

di Luciano Caveri

E' una professoressa di linguistica, Rita Fresu, ad aver scritto sulla "Treccani" dell'espressione "politically correct". Così spiega: «L'espressione angloamericana "politically correct" (in italiano "politicamente corretto") designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Secondo tale orientamento, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona». Sulle origini così si precisa: «L'attenzione a tali tematiche ebbe origine negli Stati Uniti d'America, da dove si diffuse nel resto del mondo occidentale. Nata negli ambienti della sinistra negli anni Trenta del Novecento, amplificata dai moti sessantottini e adottata dagli orientamenti liberali e radicali, essa assunse dimensioni significative sul finire degli anni Ottanta, quando diventò una corrente d'opinione basata sul riconoscimento dei diritti delle culture e mirante a sradicare dalle consuetudini linguistiche usi ritenuti offensivi nei confronti di qualsiasi minoranza (fu allora, ad esempio, che "afro-american" sostituì "black", "nigger" e "negro", per designare i "neri d'America")». In questo filone, giovedì scorso è stato organizzato dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, dal titolo "Non siamo così. Donne, parole e immagini". Al centro dell'iniziativa, il linguaggio di genere e la rappresentazione del femminile. La presidente Boldrini (Nilde Iotti, quando ero presidente di gruppo, preferiva "Il presidente") ha inviato, nell'occasione, una lettera alle deputate ed ai deputati perché negli interventi in Aula sia garantito «il pieno rispetto delle identità di genere».

«In questa legislatura - ha spiegato Boldrini - si registra il numero più elevato di deputate, circa il trenta per cento, così come si riscontra un significativo numero di donne che rivestono cariche e ruoli istituzionali, prima ricoperti in via quasi esclusiva da uomini". Un'evoluzione del vissuto che impone «in modo più evidente rispetto al passato l'esigenza dell'adeguamento del linguaggio parlamentare» e non solo. Fatemi tornare alla professoressa Fresu e alle sue spiegazioni: «Malgrado gli ideali egualitari e progressisti che lo hanno animato, il "politically correct" ha sollevato numerose polemiche. Lo si accusa infatti di conformismo linguistico e di tirannia ideologica che limita la libertà d'espressione. Si sostiene che, col pretesto di rivendicare ideali di giustizia sociale, il politicamente corretto si limita in realtà a intervenire sulla forma (ossia la lingua) piuttosto che sulla sostanza dei problemi, contribuendo ad alimentare una nuova ipocrisia istituzionale. Le scelte linguistiche imposte rappresentano spesso una versione nobilitata dell'eufemismo che tende a occultare contenuti sgradevoli; si vedano, ad esempio, in resoconti mediatici sulla guerra, le locuzioni "danni collaterali" ("collateral damages") per "strage di civili", "neutralizzare" il nemico per "uccidere", "guerra preventiva" per "aggressione militare"; o l'impiego di termini neutri come "harvest - raccolto" con riferimento alla mattanza dei tonni sulle etichette dello scatolame di aziende americane». Interessante quanto avviene in Italia: «Il "politicamente corretto", pur non avendo raggiunto il livello della obbligatorietà regolamentare, ha nondimeno causato un generale mutamento di sensibilità linguistica e contribuito a codificare stili collettivi di comportamento linguistico, sfumando in alcuni casi anche nell'interdizione. Ad evitare moduli offensivi o sgradevoli si arriva infatti attraverso diverse strategie verbali, alcune tradizionali, come gli slittamenti attenuativi mediante varie figure retoriche, altre apparentemente più innovative, come l'abuso di linguaggio tecnico e l'impiego eufemistico dell'inglese. In alcuni ambiti specifici si è quindi sviluppata la revisione di talune denominazioni. Nel campo medico-sanitario si tende ad attenuare la connotazione legata alla sofferenza utilizzando vocaboli come "assistito" piuttosto che "paziente", ed a bandire termini che alludono direttamente a menomazioni, mediante litoti (come "non deambulante" per "para" o "tetraplegico", "non udente" per "sordo", "non vedente" per "cieco") o locuzioni attenuative (come "portatore di handicap", in luogo dei più connotati "handicappato", "minorato", "invalido"; o come l'anglicismo "disabile", e recentemente "diversabile", ottenuto dalla locuzione "diversamente abile". Simili designazioni suscitano però spesso riserve e rifiuti da parte dei diretti interessati, che le percepiscono come segni di una ipocrisia linguistica dietro la quale si cela, piuttosto, il disinteresse degli enti di tutela. Tali espressioni vengono inoltre ritenute ancora più discriminanti perché di norma adottate senza che le categorie stesse siano interpellate. Sostituzioni lessicali si hanno anche nel campo dei nomi di etnie, minoranze e gruppi religiosi: com'è il caso di "nero" o "di colore" preferiti a "negro", che evoca un passato coloniale fatto di soprusi e sopraffazioni, oppure della tendenza a evitare alcuni insulti o espressioni colorite di timbro popolare, evocanti etnie: "beduino" per "persona rozza e incivile" ed "ebreo" per "avaro, tirchio". Anche nell'ambito degli orientamenti sessuali la "tabuizzazione" ha agito sostituendo forme percepite come politicamente scorrette con termini neutri, come, ad esempio, l'ormai diffusissimo "gay" che sostituisce appellativi, spesso spregiativi, riservati agli omosessuali. Ed ancora: sul piano economico e sociale i Paesi del "terzo Mondo" sono denominati "in via di sviluppo", "l'ottimizzazione delle dimensioni aziendali" o la "ridistribuzione delle risorse umane" sostituiscono il "licenziamento di massa", le categorie svantaggiate come i "poveri" sono designate "non abbienti", "imprenditori" si preferisce a "padroni"». La casistica si allarga: «particolarmente produttiva è la sfera semantica legata al mondo del lavoro, in cui la ristrutturazione formale delle denominazioni di mestieri riflette in molti casi gli effettivi mutamenti che le professioni hanno subìto e dunque rappresenta anche una riqualificazione professionale, connessa ad "una rivalutazione e all'autocoscienza del proprio ruolo nella società di oggi"; "addetto cimiteriale" per "becchino", "panificatore" per "fornaio", le molte locuzioni aventi per testa "operatore": "operatore agricolo" per "contadino", "operatore ecologico" per "netturbino" (sostituto a sua volta di "spazzino"), "operatore sanitario" per "infermiere", "operatore" o "collaboratore scolastico" per "bidello" o "custode", e così via». Ed eccoci al punto: «Una specifica applicazione del "politicamente corretto" è rappresentata dall'eliminazione di vocaboli ed espressioni che rappresentano il "perenne occultamento linguistico della donna". In Italia (come altrove) la critica del sessismo, sviluppatasi nel contesto di una linguistica femminista militante, ha rappresentato uno dei momenti attraverso cui si è sviluppata la riflessione circa il rapporto tra genere e lingua. Il tema ha goduto, intorno alla metà degli anni Ottanta, di un appoggio governativo ufficiale, che è confluito, concretamente, nei tentativi di riforma proposti da Alma Sabatini. La studiosa curò la stesura di un documento, "Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana", promosso dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione per la parità e per le pari opportunità (istituita dal Governo allora in carica). L'intervento, denunciando i residui ideologici di stampo androcentrico, metteva in luce gli aspetti più discriminanti nei confronti della donna nel sistema della lingua italiana, e proponeva in appendice una serie di suggerimenti mirati appunto a eliminare le dissimmetrie, talvolta rafforzate anche dalla scuola, più esplicitamente sessiste. Tra le "Raccomandazioni" è la proposta di evitare il maschile non marcato, e quindi la preferenza per locuzioni come i diritti della persona o diritti umani e non i diritti dell'uomo; di eliminare l'articolo davanti ai cognomi di donna, quindi "Hack" e non "la Hack", così come "Rubbia" e non "il Rubbia"; di abolire "signorina" e "signora" quando è possibile usare un titolo professionale; di utilizzare il femminile di nomi professionali o di cariche, come, ad esempio, la vigile, la sindaca, evitando il suffisso "-essa", in molti casi ancora negativamente connotato ("avvocatessa", "presidentessa"); di accordare il genere degli aggettivi e dei participi con quello dei nomi che sono in maggioranza ("Roberta, Monica, Antonio e Laura sono partite, anziché partiti") o in caso di parità con l'ultimo nome ("Luca, Paolo, Eva e Sandra sono arrivate, anziché arrivati"). Sebbene per più aspetti poco condivisibili, e di fatto scarsamente sostenute da studiosi e intellettuali, le proposte di Sabatini ebbero importanza nel sottolineare l'esigenza di un adeguamento della lingua a mutamenti della società italiana, come quello dell'emancipazione femminile e dell'uguaglianza tra i sessi. Negli anni alcuni dei suggerimenti avanzati nelle "Raccomandazioni" sono gradualmente penetrati nell'uso, come l'eliminazione dell'articolo davanti ai cognomi di donna e l'impiego, moderatamente in aumento, di nomi professionali o di cariche come "avvocata", "ingegnera", "ministra"». Insomma il filone avviato dalla Boldrini è vecchio e personalmente penso che la lingua non subisca imposizioni, anche se - ciliegina ipocrita - mi adeguo al "politicamente corretto"... E gli auguri per la "Festa della Donna" sono sinceri!